lunedì 10 novembre 2014

LA SCUOLA (da "L'Ultima Missione")


Un breve estratto da un work in progress, un romanzo d'azione ambientato in Afghanistan nel 2010, "L'Ultima Missione".

 Altro giorno altro business.
Ieri abbiamo mostrato a Giulia come si fa la guerra, oggi dobbiamo mostrarle come stiamo cercando di costruire la pace in Afghanistan.
C'è un vecchio adagio da queste parti: "Se il tuo destino di uomo è quello nascere in Afghanistan allora la fortuna non ti ha toccato. Ma se la malasorte ha deciso di accanirsi, nascerai in Afghanistan e sarai una donna."
Il nodo del fallimento in Afghanistan è tutto in queste parole.
Noi Occidentali cerchiamo di imporre dei valori e degli schemi sociali diversi da quelli che una società conservatrice e tipicamente tribale come quella Afghana si è tramandata da secoli.
E questi vengono puntualmente rigettati.
Più che altro è la popolazione maschile, la categoria sociale dominante, che non vuole cambiamenti, che lotta per mantenere lo status quo.
Le donne sono molto più ricettive: cinque di loro si sono guadagnate il diritto di diventare piloti di elicotteri da ricognizione Kiowa e sono state spedite da Karzai negli Stati Uniti per prendere il brevetto.
Giulia è interessata alla condizione della donna in Afghanistan ed a quanto sia effettivamente cambiata dopo l'invasione americana del 2001.
Ieri pomeriggio, tornati dall'area addestrativa, ha parlato con il responsabile CIMIC della base, la cooperazione con i civili afghani, che le ha indicato una scuola femminile da poco costruita in un villaggio che nemmeno è segnato sulle mappe dell'Afghanistan, a qualche chilometro da Murghab, ma che fino a due anni fa era un covo di Talebani.
Per questo ora le nostre Land Rover stanno percorrendo una strada asfaltata che porta verso est, oltre il centro abitato principale.
Abbiamo evitato la città: Murghab non è ancora un luogo tranquillo, molto meno di Kabul.
Giulia siede silenziosa sul cassone posteriore della Land Rover, gli occhialoni calati sul naso ed il viso coperto dallo shemagh, il fazzoletto arabo quadrangolare che serve per coprire naso e bocca dall'azione della sabbia, sobbalzando di quando in quando per gli scossoni che la strada sconnessa imprime al veicolo.
Dopo l'esperienza della killing house di ieri ha capito che di me si può fidare, che tengo in primo luogo alla sua incolumità.
Ha finalmente messo da parte il rancore che provava dopo il mio rifiuto alle sue profferte.
Io, invece, mi sto domandando ancora se ho fatto o bene o no.
Non tanto dal punto di vista della missione, su quello non ho dubbi che è stata la cosa giusta da fare.
Ma dal punto di vista umano e personale.
Ho constatato che oramai sono a mio agio solo quando sono in azione: tutti i miei riflessi, la mia psicologia, formata da più di due decenni di esperienze, mi hanno adattato a sopravvivere quando sono in missione.
Qualcosa dentro di me, invece, si lamenta, mi dice che c'è un'altra maniera di vivere.
Lo sento ogni volta che guardo Giulia.
Il fatto nuovo è che per la prima volta sono attratto da un'altra donna che non sia la mia ex moglie.
So di non essere innamorato.
Non è ancora possibile e non so se e quando lo sarà di nuovo, dentro di me c'è ancora Irene.
Il mio rifiuto, inoltre, ha avuto anche un'altra conseguenza inaspettata: mi ha lasciato con un elenco di questioni irrisolte.
Ed io detesto avere questioni irrisolte con me stesso.
Dopo una svolta, Sanna rallenta: la strada asfaltata finisce e comincia un sentiero sterrato.
Le nostre attenzioni si centuplicano, perchè lo sterrato offre più occasioni per nascondere uno IED e le nostre Land Rover non sono fatte per resistere alla loro detonazione, al contrario dei nuovi mezzi Lince che ha l'Esercito.
L'uomo in ralla, Pacher, che è più in alto di tutti, è quello che ha la visuale migliore.
Ma anche a me ed a Sanna tocca scandagliare la strada davanti a noi in cerca di indizi.
Arriviamo ad un ponticello che attraversa un canale di irrigazione.
Sanna rallenta ed a una decina di metri decide di fermarsi.
Ci guardiamo attraverso gli occhialoni impolverati.
Tutti e due stiamo pensando la stessa cosa: che non ci piace.
Mi rivolgo a Pacher ed a Bellei: "Voi due tenete d'occhio il perimetro per eventuali cecchini. Sanna mi copre mentre io vado a dare un'occhiata."
Apro la radio veicolare: "11-9 a team 9: possibile IED. Ci fermiamo. Copertura a 360 gradi. Over"
"21-9, Roger. Over" mi rispondono dalla seconda Land Rover.
Sanna scende e mi segue, M4 senza sicura che scandaglia per 90 gradi alla sua sinistra lo spazio. Ha montato un'ACOG, cosi può guardare più lontano. Io copro gli altri 90 gradi verso destra.
A 5 metri dal ponte si ferma ed io proseguo.
La strada sul ponte non appare smossa di recente.
Tuttavia sento che non mi posso fidare.
Non so spiegare come avvenga il processo: puro istinto.
So che non va.
Se un'eventuale IED non è sull'impiantito del ponticello, che è fatto di grossi tronchi di legno ricoperti di terra battuta, forse è sotto.
Scendo sulla riva del canale e nel momento in cui mi chino mi arriva Sanna nelle cuffie: "12-9 a 11-9. Ci stanno osservando, ore 10. Over."
I Talebani hanno sempre una fitta rete di persone che fungono da osservatori.
Per passare inosservati c'è solo un modo: agire di notte.
Noi combattere bene nell'oscurità e loro lo sanno.
Hanno il terrore di agire dopo il calar del sole, specialmente contro le forze speciali occidentali, perchè riusciamo ad essere come dei fantasmi.
Molte volte li abbiamo colpiti senza che fossero riusciti a capire da dove veniva la morte.
Alzo il mio M4 ed uso l'ACOG che ho montato da sopra la spalletta del ponte nella direzione indicata da Sanna.
Su una collina, distante forse un chilometro, una figura immobile con un turbante.
Ed ha una radio satellitare in mano.
La riconosco dalla grossa antenna tubolare.
Probabilmente sta dando la nostra posizione al suo referente.
Se avessi il mio Accuracy in .338 Lapua Magnum sarebbe facile: non c'è problema di osservazione talebana che non possa essere risolto da una palla da 250 grs che viaggia oltre la velocità del suono e colpisce il bersaglio.
Ma il mio M4 non può fare altrettanto a quella distanza.
Prendo il cellulare: ho segnale pieno. La rete cellulare qui funziona.
"13-9 da 11-9, aziona il disturbatore per i cellulari. Azzeriamo il segnale in questa zona, over."
"Roger, 11-9... jammer attivo, over." mi risponde Bellei.
Torno a guardare il Talebano.
Non ha più il grosso satellitare in mano, ma qualcosa di più piccolo.
"Ora avrai una bella sorpresa..." penso tra me e me.
"13-9 da 11-9... abbiamo dei Mietitori in zona? Over"
"11-9 Roger, controllo. Over."
Passano 30 secondi.
Ora il Talebano sta osservandoci con un binocolo.
Troppo lontano per vedere il modello.
Suppongo sia la copia cinese dell'M22 americano.
"11-9 da 13-9. Affermativo. Richiedo intervento? Over."
"Affermativo. Mandiamo quel figlio di puttana dalle sue 77 vergini. Over."
"Roger. Tre minuti. Siamo fortunati, 11-9. Over."
Guardo di nuovo dentro l'ACOG: è ancora li.
Non ha capito ancora perchè non riesce a far detonare l'IED usando il suo cellulare.
Guardo verso la Land Rover.
Giulia, sta prendendo delle foto.
Si è messa in modo da riprendere i mezzi e noi, ma da dietro, in modo da non far vedere i volti.
Chiamo di nuovo Bellei: "13-9 da 11-9, passami il VIP, over."
Dopo due secondi ho Giulia in cuffia: "Che succede?" e poi aggiunge: "...over?"
Sorrido. Bellei deve averle detto che quando si finisce la frase bisogna dire "over" tutte le volte.
"Abbiamo un IED qui, sotto il ponte. Ed un Talebano che ci osserva da quella collina laggiù. Hai capito? Over."
La risposta arriva piena di tensione nella voce: "Oh mio dio..."
Dopo un secondo ancora Giulia: "Che cosa intendete fare? Over?"
"Ti do uno scoop. Fatti dire dove è il Talebano ed inquadralo con la tua Nikon..." guardo l'orologio "Hai ancora un minuto e mezzo. Ripassa la cuffia a 13-9. Over."
"A chi?... ah si... over."
"11-9 da 13-9. Chiedono di illuminare. Over."
Chiamo Sanna, che è a portata di voce: "Luigi, Chiedono designazione bersaglio. Ci pensi tu?"
"Sarà un piacere" mi risponde Sanna.
Normalmente si dovrebbe usare un'unità di designazione codificata. Ma non l'abbiamo con noi.
Una cosa molto grezza ma che funziona è puntare l'AN/PEQ2 contro il bersaglio.
Il pilota del Reaper, che non si trova nemmeno in Afghanistan ma a Tampa, negli Stati Uniti, vede il riflesso con i sensori IR, usa lo zoom della telecamera per fare la visualizzazione finale e poi sgancia quello che ha attaccato ai piloni: Hellfire, Paveway o JDAM.
"13-9 a 12-9. Ce l'hanno. Potete smettere, over" ci comunica Bellei.
Il Talebano guarda noi, noi guardiamo lui.
Non ho idea di cosa stia pensando.
Ma sicuramente non sa che tra meno di un minuto verrà polverizzato.
La stessa cosa che voleva fare a noi.
"13-9 a team 9, Paveway sganciata! Tempo di volo 30 secondi! Over." la voce di Bellei è concitata.
Non so se il Talebano ha intuito che c'è qualcosa che non va, e che quegli stupidi occidentali vicino al ponte non sono fermi perchè hanno paura di attraversare ma si stanno godendo uno spettacolo di cui lui è l'inconsapevole protagonista, un'atto unico e senza possibilità di bis.
Può provare a scappare, ma la Paveway devierebbe la rotta per inseguirlo.
Per quanto veloce, e magari anche munito di moto, nessun Talebano può competere con una bomba intelligente che viaggia quasi a mach 1.
Oltretutto è silenziosa: non la sentirà nemmeno arrivare.
Giulia sta cominciando a fotografare a raffica.
Osservo di nuovo il Talebano attraverso il mio ACOG: ha abbassato il binocolo e si guarda intorno. Forse ha capito.
Una frazione di secondo dopo un getto di fuoco e di terra riempie il campo visivo dell'ACOG.
Abbasso l'M4.
In cima alla collina c'è un pennacchio di terra che si alza per decine di metri.
Tre secondi dopo arriva il rombo dell'esplosione.
Giulia sussulta, ma continua a scattare.
Nessuno di noi si dà alla pazza gioia.
Solo Luigi si volta verso di me e mi domanda in tono piatto: "Perchè hai sprecato una Paveway per ammazzare quello stronzo?"
"Perchè ha messo uno IED sotto il ponte dove dovevamo passare. E poi non mi piace essere osservato da qualcuno che cerca di uccidermi. Mi fa incazzare" rispondo fingendo di essere veramente arrabbiato.
In realtà è stata un'azione perfetta.
Avrei potuto ordinare di sparare con la calibro .50, che ha gittata più che sufficiente, ma non è abbastanza precisa al primo colpo.
Anche una raffica non avrebbe assicurato la matematica certezza di eliminare il bersaglio.
Ora tocca a me: lo IED va rimosso comunque, non lo possiamo lasciare li.
Torno sotto al ponticello e trovo una grossa scatola in plastica per il cibo sotto l'inizio del ponte, attaccata ad un tronco che fa parte della volta.
Tiro fuori la lampada tattica e illumino bene la scatola.
Per attaccarla al tronco hanno usato probabilmente delle viti che attraversano il fondo della scatola. Il che esclude un bottone a pressione da quel lato.
Il coperchio è tenuto chiuso da nastro adesivo telato.
Osservo bene la scatola: non sono presenti buchi.
Nessuno sarebbe cosi idiota da nastrare il coperchio di una scatola contenente un due chili di tritolo tenendo il coperchio premuto su un detonatore a pressione attivo.
Non se vuole rimanere vivo e possibilmente tutto intero.
Quello che si fa è avere un filo agganciato alla sicura del detonatore e lo si fa passare attraverso il buco del contenitore che contiene la bomba.
Si chiude il contenitore, lo si nastra e poi si tira via il filo della sicura attivando il detonatore a pressione sul coperchio DOPO che si sono finite le operazioni.
In quel modo non si rischia nulla.
L'assenza del buco da cui tirar via il filo della sicura mi fa supporre che non ci sia alcun interruttore a pressione.
Sanna mi raggiunge e si abbassa sotto al ponte: "Che succede?"
"IED parecchio artigianale. Sembra la brutta copia di quelli iracheni. Non ci sono interruttori a pressione da nessuna delle due parti."
"Uhmm... vuoi che faccia io, Claudio?"
Lo guardo aggrottando le sopracciglia. Ma che gli prende?
Ci dovrò parlare.
O forse è lui che prima o poi vorrà parlare con me.
E' un pezzo che c'è una lunga lista di cose non dette tra me e lui.
"No. Me la cavo. Non è il caso di saltare per aria tutti e due. Ci penso io. Allontanati e copri il ponte, okay?"
Annuisce: "Come vuoi."
Sanna si rialza e sparisce.
Prendo il coltellino per EOD che ho un un tascone del vest e tiro fuori una lama.
Mi metto in bocca la torcia tattica ed illumino la scatola.
Usando la punta della lama, sollevo con cautela il primo pezzo di nastro.
Non credo siano stati cosi sofisticati da mettere un contatto nel nastro.
Ed ho ragione.
Comincio a svolgere il nastro telato con cautela.
Non sono agitato, ne teso.
Solo concentrato.
Mi aspetto di trovare da qualche parte resistenza e nel caso mi fermerò subito.
Ma non ce n'è.
Al terzo giro di nastro comincio a scoprire il bordo del coperchio.
Ripongo il coltellino nel vest e metto una mano sul coperchio.
Tolgo l'ultimo tratto di nastro molto lentamente.
Finalmente viene tutto via.
Apro lateralmente la scatola, ma solo una fessura.
Mi tolgo la torcia dalla bocca e illumino l'apertura.
Non ci sono fili che vanno al coperchio.
Apro finalmente la scatola e vedo il marchingegno: L'esplosivo occupa quasi tutto lo spazio. Poi c'è il cellulare, un vecchio modello Nokia, e la batteria per il detonatore elettrico. Tutto qui.
E' di una semplicità disarmante, facilissimo da realizzare.
Tolgo il detonatore dall'esplosivo, poi guardo se ci sono fili che vanno dietro la batteria.
Non ce ne sono, ne ci sono detonatori secondari.
Tolgo tutto il complesso batteria e cellulare.
Poi l'esplosivo.
Riemergo da sotto al ponte con in mano quello che resta dell'IED.
Sanna mi guarda e poi mi dice con una espressione buffa: "Perchè ci hai messo cosi tanto?"
Faccio una smorfia: "Pensavo di chiedere un mutuo e costruirmi una casa sotto al ponte. E' un bel posto questo. Non torno con te in Italia, Luigi. Rimango qui in Afghanistan."
"Claudio... nemmeno per scherzo, okay?" mi risponde Sanna e riprende a scrutare i dintorni con il suo ACOG.
"Nemmeno da morto resto qui. Ma ti pare? Togliamo le tende."
Sanna mi manda un'occhiataccia di sbieco.
Saliamo sulla Land Rover.
Giulia mi mette una mano su una spalla: "Claudio, cosa è stata quell'esplosione sulla collina?"
"Una Paveway. Una bomba intelligente sganciata da un drone."
L'espressione di Giulia è tutta un programma: ha appena visto un Talebano morire disintegrato da qualche centinaio di chili di esplosivo.
E ci ha visto in azione.
Annuisce: "L'IED sul ponte?"
Le faccio vedere i pezzi: Giulia fa un salto indietro spaventata, come se l'esplosivo potesse morderla.
"Posso... posso fotografarlo?"
"Si, ma non riprendermi il viso."
Scatta velocemente una serie di foto.
"Grazie. Ed ora?"
"Ci muoviamo. La scuola è oltre il ponte. Ho l'impressione che qualcuno sapesse che saremmo venuti qui. Lo IED è stato piantato da poco, meno di un giorno."
"Cosa?" esclama lei.
"Forse abbiamo un problema di segretezza, Giulia."
Il bel volto di lei perde colore.
"Non ti preoccupare. Se c'è una talpa la troveremo."
Faccio segno anche all'altra Land Rover: "Andiamo!"
Finalmente attraversiamo il ponticello sul canale.
La scuola è a circa 500 metri: una costruzione in cemento intonacato, circondata da un recinto in rete metallica.
Alle finestre ci sono delle sbarre.
Sembra un bunker, più che una scuola.
E' nuova di zecca e per fortuna è isolata dal resto del villaggio.
Controllare l'accesso sarà facile.
"11-9 a 21-9, bloccate l'entrata principale. Nessuno entra nessuno esce se non do io il permesso. Riferite costantemente. Over."
Mi risponde Ripa: "21-9 roger forte e chiaro. Over."
La mia Land Rover prosegue fino all'entrata della scuola, su un piazzale ricoperto di brecciolino dove sono piazzati dei giochi per bambini: delle altalene, una piccola giostra, nuove di zecca anche loro, probabilmente dono di qualche ONG affiliata all'UNICEF.
Mi giro verso Giulia: "Mettiti l'hijab. Ti faccio da traduttore. Non toccarmi e non passarmi davanti. Qui chi comanda è l'uomo. Tienine sempre conto quando ti muovi in Afghanistan."
"La maestra parla Inglese."
Ho un brivido lungo la schiena.
"Come lo sai?" domando.
"Me lo ha detto l'assistente del responsabile CIMIC, alla base."
Mi sollevo gli occhialoni ed abbasso lo shemagh.
La guardo negli occhi.
"E chi è l'assistente del responsabile CIMIC?"
"Un ufficiale afghano, Hamid Abdallah. Perchè?"
"Che cazzo gli hai detto, Giulia?"
"Non mi dirai..."
Cerco di calmarmi. Abbiamo corso un rischio enorme per una semplice imprudenza.
E' una giornalista, non una di noi.
Si è comportata come se fosse un normale servizio giornalistico in un normale paese: si prendono accordi con le fonti, si stabiliscono appuntamenti.
Ma siamo in Afghanistan: qui tutto ha modi diversi e prende una piega diversa.
"Non sono arrabbiato con te. Giulia. Non lo potevi sapere. Credo che con questo Hamid ci farò una chiacchierata al ritorno."
"Non posso nemmeno presentarmi accompagnata da gente armata fino ai denti senza avvertire, Claudio. Li spaventerei. Ci sono i bambini."
Annuisco: "Si hai ragione. Ma qui ci sono maniere diverse di fare le cose. La prossima volta parlane con me prima di prendere contatti, okay?"
"Scusami. Va bene."
Si toglie gli occhialoni, lo shemagh dal viso. Poi da una tasca esce fuori un lungo fulard lilla, con ricami dorati e se lo mette sul capo, avvolgendo una estremità sul collo per fermarlo.
La guardo: anche con i capelli coperti è bellissima.
Il viso triangolare risalta, gli occhi dal taglio perfetto splendono.
Per un attimo desidero intensamente di baciarle quelle labbra che sembrano fatte di velluto.
Sento un rumore poco distante, mi volto verso l'entrata della scuola: Una figura dalle sopracciglia nere come archi d'ebano avvolta in un hijab è apparsa sulla soglia.
Un secondo dopo altre due piccole figure fanno capolino dietro di lei e si aggrappano alle gambe della donna.
"Andiamo, sei attesa. Ma alla donna parlo prima io. Devo capire se è tutto a posto o se qualcuno ci attende dentro."
Mi tolgo l'elmetto e mi metto il berretto amaranto.
Aiuto Giulia a scendere dal cassone.
Deve aver notato come la guardo, perchè mentre posa i piedi a terra mi sorride, enigmatica.
Ci avviamo verso l'entrata della scuola.
Faccio scivolare l'M4 sulla schiena, ma istintivamente calo il braccio destro sul fianco: l'impugnatura della Sig Sauer mi cade naturale nella mano.
La donna afghana è piccola di statura, con una ciocca di capelli neri che fuoriesce dall'hijab.
Il viso tondo è segnato ma grazioso, le labbra rosse e piene, gli occhi scuri vivissimi.
Ed è spaventata.
Mi porto la mano sul petto e la saluto: "Salam alaikum, I brought you the journalist that asked to talk with you. I apologize for the guns that I have with me, but they are here to protect you and my friend."
Si copre il volto con un lembo dell'hijab ed annuisce: "May the peace be with you, soldier. I understand why you're armed. You're in Afghanistan, far from your home. And it's many years that I see armed people. I am used to it."
Non so perchè ma le sue semplici parole mi toccano.
Giungo le mani, mi inchino leggermente e proseguo in Inglese: "Posso presentarle la signora Giulia Baraldi? Viene dal mio paese, ed è venuta ad intervistarla per sapere di più sull'Afghanistan e sulla condizione della donna, su cosa fate in questa scuola per migliorare la loro vita."
La donna guarda Giulia, e le sorride.
Giulia ricambia il sorriso, alla sua maniera.
Ogni volta che lo fa, sembra che diffonda una luce calda.
Giunge anche lei le mani e si inchina leggermente: "Salam Aleikum, il mio nome è Giulia."
La donna restituisce il saluto e risponde: "Salam, il mio nome e Noor".
Ora le presentazioni sono fatte e mi dispongo a lato.
Noor spiega che la scuola è stata fatta dalla cooperazione britannica e la manteniamo noi con il programma CIMIC del contingente italiano.
Ospita circa 150 bambini in età scolare compresa tra i sei ed i 14 anni, che vengono sia da Murghab sia da altri piccoli villaggi nella valle.
Noor, che dirige la scuola, ed altre sei maestre insegnano le varie materie: a scrivere e leggere lingua locale, il Pashtu, la matematica, economia domestica, storia, geografia.
Ci accomodiamo in un ufficio: scrivania, due sedie, una lavagna sbeccata da un lato, un orologio uno schedario. Tutto è mantenuto pulito, in ordine.
Mi fa impressione la dignità di queste persone, che tengono anche al poco che hanno.
Mi incute rispetto.
Mi sono messo in disparte anche per tenere le comunicazioni con il resto della squadra senza disturbare il lavoro di Giulia.
Noor non si nasconde più il viso con l'hijab mentre parla con Giulia, anche se sono comunque presente.
Sorridono tra donne, si parlano.
Per Noor è un avvenimento, un riconoscimento importante la presenza di un giornalista straniero che scriverà di loro, della sua scuola.
I bambini ad un certo punto cominciano a vincere la paura degli estranei, specialmente la paura provocata dalla mia presenza.
Una piccolina con gli occhi chiarissimi e le treccine fa capolino più di una volta.
E' bellissima, ha un musetto ed un sorriso che scioglierebbero il cuore più duro.
Domanda in Pashtu a Noor chi siamo.
Noor si scusa con noi: "Non vedono mai stranieri cosi da vicino, sono curiosi" interrompe l'intervista per rispondere alla bambina: "Sono amici, Amina. Sono venuti qui dall'Italia per sapere cosa impari a scuola."
Amina si volta verso di me: "Anche lui è un amico?" domanda a Noor indicandomi.
Noor annuisce: "Si. Lui è qui per proteggere la signora con cui sto parlando."
Amina allora vince ogni diffidenza e mi si avvicina: "Signore, dove è l'Italia?"
E' di una sfrontatezza e di quell'audacia senza malizia di cui solo i bambini sono capaci, eppure già piena di quella seduzione che domanda tutta l'attenzione e l'amore del mondo.
Mi tolgo gli occhiali da sole e le sorrido. Le rispondo in Pashtu: "E' molto lontano da qui, Amina. Oltre le montagne ed il mare."
Si mette le mani sulla bocca, con quelle movenze rapide, da gatto, tipiche di un'indole vivace.
"Che cosa è il mare, signore?" mi domanda Amina.
Si avvicina ancora di più e poi tocca lo spegnifiamma della mia carabina M4.
Mi frugo il vest: ho della cioccolata italiana, quella che danno in dotazione a noi e che è piuttosto buona.
Gliela do': "Tieni Amina. Per te. E' cioccolata dall'Italia."
Mi guarda come se fossi Iddio. Ha la bocca aperta per la sorpresa.
Mi prende la cioccolata dalla mano come se temesse che potessi riprendermela per uno scherzo crudele.
Le sorrido.
Lei ha la cioccolata al petto e ricambia il sorriso.
Giulia mi guarda.
Ha gli occhi pieni di tenerezza per la scena.
Noor si rivolge ad Amina: "Come si dice Amina? Il signore ti ha regalato una cosa buona!"
Amina si china un'attimo sulle gambette e poi esclama: "Grazie signore!" e corre via.
"Amina è orfana, come tante qui a scuola" dice Noor.
"Come è successo?" domanda Giulia.
"Un attacco Nato, all'inizio di quest'anno."
Giulia mi guarda di nuovo, contrariata.
"C'è stata parecchia attività di Talebani in quel periodo" le rispondo "La base è stata sotto assedio per quasi un mese."
Poi mi rivolgo a Noor: "Mi dispiace. E' la guerra."
"Lo so. E' successo tante volte. Il padre di Amina era un Talebano."
In Afghanistan è cosi: tutto è sovrapposto, confuso.
Uno si può fare i fatti suoi ed scoprire che il suo vicino è il nemico.
Per quello è cosi difficile dipanare la matassa, separare chi ti spara addosso da chi non gliene frega nulla di noi, dei Talebani e della jihad.
"Lei non porta il burqa, Noor..." domanda Giulia.
"Mi sono sempre rifiutata di portarlo. E' una schiavitù." risponde Noor fiera.
"In che senso?"
"Serve a non attrarre l'attenzione degli uomini. E' pesante, scomodo. E ci rende invisibili, perchè ci rende tutte uguali, indistinguibili l'una dall'altra."
"Quanto è cambiato da quando ci sono gli Occidentali per voi donne?"
"Qualcosa è cambiato, Giulia. Ma è una lunga strada. Io subisco minacce tutti i giorni per quello che faccio. Le ragazze qui a 14 anni vengono tolte dalla scuola e fatte sposare con uomini che hanno anche 40 anni più di loro. Matrimoni combinati per dare sollievo economico alle loro famiglie."
"Lei pensa che ce ne dovremmo andare, allora? Che è stato tutto inutile?"
"Tutto inutile? No" scuote la testa Noor "ma per cambiare veramente le cose dovreste restare qui almeno 100 anni, e poi altri 100. E non credo che voi Occidentali vogliate prendervi un'impegno simile. L'Afghanistan è un paese difficile, Giulia, dove le cose sono rimaste immutate per secoli, nonostante gli eserciti stranieri che ci hanno invaso. Indiani, Persiani, e poi gli Inglesi ed i Russi. Ora voi. Tutti gli altri sono arrivati e poi se ne sono andati. E cosi succederà anche con voi. Ve ne andrete come gli Inglesi ed i Russi. Noi non siamo capaci di cambiare senza aiuto esterno. Ed il problema più grande è che non vogliamo cambiare. Almeno la parte maschile di questo paese. A loro sta bene cosi."
"Non è frustrante? Allora perchè la scuola? Perchè resistere alle minacce, alle pressioni, al pericolo?" incalza Giulia.
Noor guarda fuori la finestra con le sbarre, per un attimo.
Poi gli occhi bruni incrociano quelli azzurri di Giulia: "Perchè non posso restare indifferente alle sofferenze del mio popolo. Perchè bene o male ci avete dato un'occasione. E soffrirei di più a non fare niente."
"E' una goccia nel mare, però..."
Noor pare non capire. Anche lei non deve sapere cosa sia il mare.
"E' un grande sforzo, quello che fai Noor, ma senza un risultato sicuro."
"E' vero. Il risultato non è sicuro. Vero anche questo. Ma tu puoi dire chi leggerà i tuoi articoli? E che effetti faranno sulla gente? Se hai seminato un seme che può portare, assieme a tanti altri, a far crescere una foresta? A far fiorire, un giorno un campo?"
Questa donna afghana ha una maniera di parlare che ti arriva nel profondo.
Ho un moto di ammirazione per lei, perchè siamo simili.
Io so che non possiamo vincere questa guerra, ma mi batto lo stesso a rischio della vita.
Lei sa che forse non potrà vincere l'ignoranza e l'immobilismo della sua gente, ma lotta ugualmente a rischio della sua incolumità.
"Vale la pena anche di essere uccisa, per piantare questo seme, Noor?"
Il tono di Giulia nel fare questa domanda non è quello della professionista.
E' accorato. Solidale. E' la donna che parla, non la giornalisca.
Noor la guarda, fiera. Le sorride, e poi annuisce: "Si."
Ogni tanto capitano momenti in cui ti chiedi se ne vale la pena di rischiare la vita, di fare questo mestiere.
Ne ho viste di tutti i colori in missione.
Ed ogni tanto succede che ti arrivino le risposte, che il tuo lavoro prenda all'improvviso un significato.
Noor ha fatto ora esattamente questo.
Ha dato significato a quello che faccio qui in Afghanistan.
E gliene sono grato dal profondo del cuore.
L'intervista continua, ma non la seguo più.
Sento i miei che riferiscono per radio.
Fuori la vita prosegue senza intoppi.
Il mondo fuori di me se ne frega della gratitudine e del moto di dolcezza che ho provato a quel "si" di quella piccola donna afghana.
Ma per il mio cuore di soldato, quel si vale più di qualsiasi medaglia, encomio o parole di lode che ho ricevuto.
Noor e Giulia si alzano.
Io faccio altrettanto.
E' il momento del commiato: l'intervista è finita.
"Devo fare le foto, Claudio" mi dice in Italiano Giulia.
"Non c'è problema, Quanto pensi di metterci?"
"Venti minuti al massimo."
Annuisco: "Avverto i miei. Fai con comodo."
"Grazie" dal tono di voce Giulia mi fa capire che l'intervista ha colpito anche lei.
Quando esco dalla scuola, le bambine sono tutte fuori, con le figure coperte dall'hijab delle maestre che le accompagnano.
Sciamano allegre, chiassose, facendo la fila per giocare sulle giostre.
Le maestre come mi vedono si coprono il volto con un lembo dell'hijab, ma muovono il capo in un timido cenno di saluto.
Giungo le mani ogni volta e accenno ad un inchino, mormorando "Salam".
E' un momento di pace, di vita, in mezzo alla guerra.
Ed anche dentro me stesso.
E per un attimo sono infinitamente grato a Zanin per questa missione, che mi ha condotto fino a qui, e che mi ha permesso di gustare questo momento che mi allarga l'anima e mi fa sentire gioioso come non mi sentivo da tempo.
Per un attimo il guerriero è stato messo a tacere.
Sono di nuovo sposo, padre, uomo.
Chiudo gli occhi e sospiro.
Poi la missione riprende il sopravvento.
"11-9 a team 9. Ancora venti minuti ed abbiamo finito. Over."
Mi risponde Ripa, che ha il comando della squadra quando sono impegnato: "21-9 Roger. Nessun problema, over."
Ripa. Il romano che in pattuglia scrive haiku e gira con un Tanto al posto del coltello da incursore.
Un'altro fratello in uniforme di cui mi fido ciecamente.
Forse non sono riuscito ad avere successo nel farmi una famiglia perchè in cuor mio considero il Reggimento come se fosse la mia vera famiglia.
Conflitto di interessi.
Il cuore non è mai servo di due padroni.
Arriva sempre il momento di scegliere.
E se non lo fai, sceglie qualcun'altro per te.
Giulia ricompare nello spiazzo davanti alla scuola.
"Finito. Possiamo andare" mi dice.
Si volta: c'è anche Noor in mezzo a tutti i bambini, che ci guarda.
Giulia la saluta con energia, agitando la mano.
Noor ricambia con la mano anche lei.
Alzo la mano anche io, in un gesto goffamente timido.
Noor si copre il viso con l'hijab con una mano. Ma con l'altra ricambia anche il mio.
"Andiamo ti prego, Claudio" mi fa Giulia.
E' commossa. E non lo vuol dare a vedere.
Risaliamo sulla Land Rover, Giulia si tira su lo shemagh a coprire il volto e si infila gli occhialoni.
Non vuole parlare.
Ci deve essere un turbinio di emozioni dentro di lei che cerca disperatamente di rimettere in ordine.
Tutti abbiamo bisogno di ordine. Il caos ci rende fragili, deboli, vulnerabili.
Incapaci di agire.
Mi infilo l'elmetto in kevlar e gli occhialoni, tiro su lo shemagh anche io.
"11-9 a team 9 ci muoviamo. Torniamo alla base. Over."
"21-9 a 11-9, Roger. Pronti a muovere, vi seguiamo. Over."
Ripassiamo per il ponticello ma ad un bivio cambiamo strada: fino a che è sterrato non vogliamo dare la possibilità ai Talebani di piazzare uno IED sfruttando il fatto che sicuramente sanno dove siamo passati in precedenza.
Sono immerso nei miei pensieri, anche se scandaglio il mio settore di tiro, quando passiamo vicino ad una casa isolata, che da su dei campi coltivati, appena fuori un villaggio.
Improvvisamente sento Giulia gridare: "Ferma! Ferma immediatamente!"
Sanna frena di botto.
Scatto come una molla dal sedile della Land Rover, ma Giulia è già scesa e mi precede.
Impugna la Nikon.
Ha visto qualche cosa che l'ha fatta uscire dal suo mutismo.
E' una furia, tanto che fatico a raggiungerla.
La rabbia per l'imprudenza che sta commettendo viene messa da parte rapidamente, sostituendola con la preoccupazione di proteggerla.
E la curiosità di vedere cosa ha scatenato la sua reazione.
Faccio appena in tempo a gridare per radio: "Team 9 abbiamo un problema con il VIP! Perimetro, Over!"
Non aspetto nemmeno la risposta.
Ci siamo fermati vicino all'entrata di una fattoria: un muro di mattoni di fango con un'unica porta con gli stipiti in legno.
Attorno campi coltivati.
Non si vede nessuno.
Ho l'M4 imbracciato.
Guardo attorno con l'ACOG: se c'è qualcuno che ci osserva deve essere ben nascosto perchè non riesco a vedere nulla.
Quando riabbasso l'arma vedo Giulia che sta fotografando attraverso l'entrata della fattoria.
Mi si rizzano i capelli sotto l'elmetto.
E' una delle cose più stupide da fare in una casa Afghana.
Può far imbestialire il proprietario della fattoria.
E prendersi una fucilata solo perchè ha violato l'intimità di una casa privata.
Solo perchè, agli occhi di un Afghano, si sta comportando in maniera sfrontata e provocatoria.
La raggiungo e guardo anche io, per rendermi conto in che razza di guaio ci ha cacciati.
E rimango allibito da quello che vedo.
La porta da su un cortile, dove si aprono le varie stanze della fattoria.
In mezzo al cortile c'è piantato un paletto con una catena.
L'altro capo della catena è agganciato alla caviglia di una donna, di cui vedo solo gli occhi perchè avvolta nel suo hijab.
La catena è abbastanza lunga per permettergli di entrare nelle stanze, di cucinare o di fare i suoi bisogni, ma non per uscire dalla fattoria.
La donna è rimasta paralizzata dallo spavento e ci guarda.
Sento l'otturatore della Nikon scattare continuamente.
"Giulia, andiamocene prima che arrivi qualcuno..." le dico piano.
Non mi risponde, muove lo zoom e scatta di nuovo.
"Giulia..."
Si rivolta come una tigre verso di me: "Che vuoi?"
Non le vedo il volto, coperto dallo shemagh e dagli occhialoni.
Ma attraverso il policarbonato trasparente gli occhi appaiono rossi.
Le prendo delicatamente un braccio.
"Stiamo rischiando di far arrabbiare qualcuno, non dovremmo essere qui..."
Mi tira via il braccio bruscamente.
Ma so che non ce l'ha con me.
E' solo arrabbiata per quello che ha visto: una donna trattata alla stregua di un cane.
E non posso darle torto.
Improvvisamente sento una voce maschile.
Da una delle stanze è uscito un Afghano, basso e tarchiato, con una folta barba nera.
Indossa un vestito lurido, un turbante nero ancora più sporco, e gesticola minaccioso.
Deve essere fuori di senno, perchè nonostante veda che io sia armato, si avvicina.
Non ha nulla in mano, ma ci sta insultando pesantemente in Pashtu.
Ci sta dicendo di andarcene, che quella è la sua terra e quella è la sua casa.
Gli rispondo che stiamo per andarcene e di stare calmo.
Ho la mano destra sulla pistola, pronto ad estrarre.
La sinistra protesa in avanti con il palmo aperto.
"Ce ne andiamo, stai calmo." ripeto in Pashtu.
Il contadino ci sputa addosso.
Dal suo punto di vista siamo in torto marcio.
Dal mio, gli pianterei una palla in mezzo agli occhi, perchè mi disgusta.
Ma non è il mio paese. Quella donna incatenata non è ne mia moglie, ne mia madre, ne mia sorella.
In una parola, non sono affari miei.
Non ho il diritto di fare nulla, se non proteggere Giulia.
"Figlio di puttana!" urla Giulia all'indirizzo dell'Afghano e fa per avventarglisi contro.
Faccio appena a tempo ad afferrarla per un braccio: "Ma sei impazzita?"
L'Afghano fa per avvicinarsi ulteriormente, è paonazzo di rabbia perchè a violare la sua casa è stata, per colmo di ignominia, una stupida donna.
"Lasciami!" urla Giulia, che si divincola.
L'Afghano arriva a due metri da noi, urlando insulti anche lui.
Ora sono in guai seri.
"Non ti avvicinare!" gli intimo, mentre ho il mio bel daffare a tenere ferma Giulia.
Cerco di interpormi tra l'Afghano e la donna.
Ma cosi offro il fianco e Giulia mi ostacola nell'estrazione dell'arma in caso di necessità.
L'uomo ha assunto una posa che mi mette in allarme: ha portato una mano, la destra, dietro al corpo, con le gambe larghe, e con la sinistra indica Giulia e continua ad urlare insulti, con la bava alla bocca.
La cosa deve finire e subito.
Allargo le gambe e scaravento Giulia verso l'esterno della fattoria.
Poi fulmineamente afferro l'M4 con entrambe le mani e contemporaneamente faccio perno sulla gamba sinistra, avanzo la destra, alzo il calcio dell'M4 e lo ruoto con tutta la forza.
Sento il calcio cozzare sulla faccia dell'Afghano ed un grugnito di dolore.
Immediatamente faccio un balzo indietro, mollo l'M4 e come per magia la Sig Sauer appare nelle mie mani.
L'uomo è a terra, che si tiene la faccia.
Accanto a lui un coltello.
Ecco cosa era andata a cercare la sua mano destra.
Stupido. Non ha a che fare con un novellino.
"Ascolta. Noi adesso ce ne andiamo" gli dico calmo in Pashtu "E tu rimani buono buono a terra fino a che non ci siamo allontanati, perchè se solo provi ad alzarti ti ammazzo come un cane."
L'Afghano si è messo seduto, il turbante è caduto per la botta che gli ho dato.
Devo avergli rotto il naso, perchè gli cola del sangue e si sta gonfiando a vista d'occhio.
Mi guarda e soffia, come un serpente velenoso.
Ma ha capito che se solo muove un muscolo la sua vita termina all'istante.
"Giulia, vai subito verso la Land Rover. ORA!"
Incomincio ad indietreggiare, sempre con le braccia semiflesse e la pistola nelle mani puntata verso la testa dell'Afghano.
Non appena esco dalla porta che da sul cortile, mi guardo rapidamente dietro le spalle: Giulia sta camminando verso la Land Rover poco distante.
Quando guardo di nuovo attraverso l'apertura, l'Afghano, furioso e sanguinante, è ancora seduto e non osa muoversi.
Con calma e lentezza ostentata, rimetto la pistola in fondina.
Poi alzo le mani, faccio un paio di passi indietreggiando, mi giro, dando la schiena, e senza fretta riguadagno la Land Rover.
Quando mi siedo al mio posto l'adrenalina si sta smaltendo: "11-9 a team 9. Togliamo il culo da questo posto e di corsa. Over!"
Ci muoviamo e riguadagnamo la strada asfaltata dopo qualche centinaio di metri.
Giulia mi mette una mano sulla spalla.
Non mi giro.
"Claudio..."
Mi giro lentamente, con la testa piegata in una mossa minacciosa, la guardo e più che parlare le ringhio una risposta: "Non provare a parlarmi ora. Non voglio sentire il suono della tua voce fino a che non siamo rientrati alla base, mi sono spiegato Giulia? Mi sono spiegato chiaramente?"
Toglie la mano dalla mia spalla ed annuisce.
Sono furioso per il modo con cui ci ha messo in pericolo tutti.
Anche se capisco il perchè lo ha fatto.
Ha visto due mondi in conflitto: quello della scuola, l'Afghanistan che prova a cambiare, ed il resto del paese, che quel cambiamento non lo vuole e non lo accetta.
Ed è rimasta coinvolta.
Io devo sbollire, invece. Non posso permettermi lo stesso lusso.
Arriviamo alla base a pomeriggio inoltrato.
Lascio Giulia davanti alla foresteria e poi varchiamo il cancello nero che delimita la nostra zona.
C'è una animazione insolita, forse sono tornati gli Americani dal Turkmenistan.
Faccio in tempo a lasciare i miei ragazzi ad accudire le auto quando incontro Zanin, armato di tutto punto.
Quando mi vede cambia l'espressione con una che non lascia presagire nulla di buono.
"Claudio... quale scuola hai visitato oggi con la giornalista?"
Faccio mente locale.
Era una scuola costruita dai Russi, e gli Inglesi l'hanno riedificata sulle sue rovine.
"Mi pare Scuola Unificata nr. 30. Si il nome è quello. E' ad est di Murghab, un po fuori. Perchè?"
"Perchè quella scuola è sotto attacco dei Talebani."
Mi si ferma il cuore.
Penso subito a Noor, ad Amina, ai bambini.
Scuoto la testa: "No. Non è possibile..."
Ma so che è vero.
Zanin ha la faccia di pietra.
Il peggio, l'inimmaginabile, sta succedendo.


(Work in Progress)

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