Una chicca, come promesso, ai miei lettori.
Una anticipazione sul nuovo libro, che concluderà il racconto di questa campagna di conquista planetaria da parte della Federazione.
Ho idea che verrà molto lungo... solo il prologo all'azione sono 4 capitoli.
Possono sembrare tanti, ma la situazione lasciata nella prima parte di FARAS andava elaborata.
Da lettore mi sono sempre chiesto, quando seguivo dei sequel, cosa fosse successo tra la fine di un episodio e l'inizio del successivo (si pensi, per esempio, a Star Wars).
Mi sono permesso di non lasciare ai miei fedeli lettori in questo limbo.
Sarete ricompensati quando l'azione, come una valanga, prenderà velocità.
Non vi farò dormire la notte. Promesso.
Capitolo 3
LICENZA SULLA TERRA
Per Werner Beck la cosa più difficile era stato salutare Ela.
Ora che si erano riuniti, anche se nelle circostanze oscure e incerte di una guerra su un altro pianeta, gli ordini li avevano divisi di nuovo.
«È una cosa temporanea, Werner. Sono solo 30 giorni di licenza. Tu e il tuo reparto avete dato così tanto in questi mesi, mi pare perfettamente logico» aveva detto la Morassiana quando lui era andato a salutarla con un groppo alla gola.
Beck aveva reagito male.
«Potresti lasciar perdere la tua logica Morassiana una volta tanto?» aveva risposto tagliente.
Ela gli aveva lasciato la mano e si era tirata un passo indietro, sbattendo gli occhi sbalordita.
«Ho pensato di chiedere al comando di non seguire i miei. Il mio vice, il tenente Müller, può gestire il reparto una volta tornati sulla Terra. Ma ho lasciato perdere…» proseguì lui in tono basso.
La Morassiana rimase muta, in tensione.
«… Non volevo partire. Ma non è possibile. Un comandante segue sempre il reparto, sia in combattimento sia quando gli viene dato il meritato riposo…» continuò il Terrestre.
Ci fu un momento di silenzio in cui rimasero a guardarsi ed a Beck lo spazio che si era creato tra loro due apparve più grande di quello, misurabile in anni luce, che separava Faras dalla Terra.
«Cosa suggerisce la tua logica?»
«Che devi andare… sai qual’è il tuo dovere.»
«Riguardo a quello che ho pensato di chiedere? Avrei trasgredito sia il dovere che la logica.»
Ela cambiò espressione e passò dal gelido controllo Morassiano allo sbigottimento.
«Per il Creatore… » esclamò.
Si avvicinò timidamente e riprese la mano che aveva lasciato prima.
Lui invece la prese e l’abbracciò forte.
Dopo mezzo secondo anche la Morassiana ricambiò.
Beck potè percepire, oltre al calore del corpo di Ela, il profumo dei lunghi capelli neri, e questo gli provocò un dolore lancinante dentro.
«Il destino gioca degli scherzi assurdi…» mormorò all’orecchio di lei.
Mi manchi già…
«Il destino è un sadico, Werner. Ma è un mese. Solo un mese. E mi troverai ancora qui…»
Al Tedesco venne da domandare se le sarebbe mancato. Ma riteneva che un uomo non dovesse fare certe domande alla propria donna. Le aveva dato tutti gli appigli, ma Ela sembrava incapace di dirlo.
Di tessere quel ponte che quelle parole avrebbero teso.
Sentì le labbra di lei toccare le sue guance ispide di barba.
«Ti aspetterò. Non è un tempo così lungo dopo essere stati separati per così tanto in precedenza, non credi?»
Lui annuì.
«Sì, è logico.»
Si baciarono a lungo, il corpo morbido di Ela premuto contro quello muscoloso di lui.
Una stilla di calore gli raggiunse il cuore, ma a Beck non parve abbastanza.
«Vado. Ho l’imbarco tra sei ore. Ci vediamo tra un mese, piccola…» disse lui sorridendo senza dolcezza.
«Sarò qui. Ciao, amore…» rispose lei.
Poco prima che la UFSS Indianapolis, un trasporto d’assalto gremito di soldati che ripartivano per la Terra, lasciasse l’orbita di Faras alla testa di un piccolo convoglio, il palmtop di servizio trillò:
Ho fatto qualcosa di sbagliato? Ela.
Beck guardò il messaggio a lungo, fino a quando non risuonò un avviso dall’intercom dell’astronave e si udì una gradevole voce femminile con un leggero accento dariano:
Parla il comandante della UFSS Indianapolis, il capitano di vascello Bema Ronax. Tra trenta secondi salteremo in FTL. Tutti i normali servizi di comunicazione si interromperanno. In caso di necessità, delegate ai vostri comandanti di unità eventuali messaggi urgenti da inoltrare. È tutto.
Beck guardò lo schermo ancora una volta, si sdraiò nella sua cuccetta e cercò di trovare le parole giuste per rispondere. Poi il segnale sul palmtop scomparve e l’intercom si riaccese un’ultima volta:
Qui di nuovo il comandante, siamo saltati in FTL. Tra quarantotto ore riemergeremo per inserirci in orbita attorno alla Terra. Buon viaggio a tutti!
Lentamente, il Tedesco spense il palmtop e se lo mise nel taschino dell’uniforme.
Le navette che contenevano i soldati e l’equipaggiamento della 103° Divisione di Fanteria Federale atterrarono due giorni dopo allo spazioporto di Darmstadt, vicino Francoforte, per poi proseguire con i propri mezzi antigravità fino a Blaustein, dove sorgeva la base della Divisione.
Beck si sporse dal tetto del proprio mezzo e guardò verso la coda del convoglio: il 1° Reco marciava sempre alla testa dell’unità, come reparto esplorante. I mezzi corazzati ed i trasporti antigravità si snodavano per diversi chilometri e l’ufficiale non fu in grado di vedere la fine della colonna.
Accanto a lui sporse la testa Müller.
«Non avevano detto che avrebbero fatto uno spazioporto a Günzburg?» sbottò ad un certo punto.
«Se la sono presa comoda, Werner. La ricostruzione dopo la guerra Urdas ha posto altre priorità» rispose Müller sogghignando.
«Ogni volta che ci imbarchiamo o torniamo alla base dobbiamo fare quasi trecento chilometri. È una idiozia!» ringhiò.
L’amico e collega lo guardò perplesso.
«Non vedo dove sia il problema…» mormorò socchiudendo gli occhi.
«Siamo tatticamente vulnerabili…»
«Non siamo in una situazione di pericolo.»
Beck trasse un lungo sospiro.
Allungò una mano sul mezzo corazzato e passò la mano guantata sul metallo.
La ritirò sporca di terra.
I mezzi non sono stati lavati prima dell’imbarco. Questa polvere proviene dal suolo di Faras. Ed ha viaggiato interi anni luce per arrivare fino a qui.
«Potremmo esserlo un giorno. Sai bene che non è finita» mormorò guardandosi il palmo della mano.
«Werner… è da quando siamo partiti da Faras che ti osservo. Sei nervoso, scorbutico, non sorridi mai. Che ti è accaduto prima di partire?»
«Ela è su Faras» rispose secco il Tedesco.
«Cosa? Quando…»
«L’ho scoperto dopo Korga’t, quando sono andato a farmi vedere all’ospedale da campo. Si è arruolata come infermiera. E ci siamo incontrati.»
Müller sorrise.
«Ahhh… la piccola Ela Warna! Una Morassiana in gamba. E tu sei innamorato cotto.»
Beck proseguì come se l’altro non avesse parlato.
«L’ho rivista prima di partire…» disse. E per la prima volta da quando avevano iniziato quella conversazione guardò l’amico negli occhi.
L’altro annuì.
«Non è andata bene?»
«Ci siamo ritrovati su Faras dopo una separazione di quasi un anno. Ed ora debbo starle lontano di nuovo.»
«Cosa è andato storto nei saluti?»
«Avrei voluto sentirmi dire che le manco come lei manca a me.»
«Abituati, Werner. È Morassiana. Ha visto il lato logico della cosa.»
«Forse hai ragione. Ela a volte cerca lo slancio, di essermi vicina anche emotivamente. Ma poi prevale la Disciplina, inesorabile. E non la sento più come vorrei.»
«I suoi non erano contrari alla vostra relazione? Quando eravamo su Moras non mi ricordo che sorridessero all’idea, anche se hai salvato il loro culo Morassiano più di una volta. Ma nonostante tutto lei si è arruolata. E lo ha fatto per te. Non significa niente questo? »
Beck ridacchiò imbarazzato.
«Forse dovrei essere io quello più Morassiano. Soffrirei di meno.»
Tirò fuori dal taschino il palmtop e fece vedere il messaggio a Müller.
L’altro annuì.
«Userà pure la Disciplina, ma questo non le ha impedito di accorgersi che non era tutto a posto. Ha una sensibilità non comune quella ragazza. Scrivile.»
«Sono due giorni che ci penso…» disse scuotendo la testa Beck.
«Dille quello che senti. Sei tu il Terrestre, quello emotivo.»
Rilke, alla postazione radio del mezzo, li chiamò.
«Capitano, comunicazione a tutta la Divisione da parte di Mummert. Domani mattina riunione di tutti i comandanti di unità. All’arrivo dobbiamo solo mettere i mezzi nei ricoveri, consegnare gli equipaggiamenti e riposare. Tassativo.»
Beck annuì.
«Sai cosa significa, Hans?»
«Sì. Che da domani mattina dovremo sgobbare come scimmie. Il grande capo ha compilato un bel programma di lavoro zeppo di roba.»
Nella sala riunioni della base, a Blaustein, Beck si ritrovò accanto a Paul Böhm, il comandante dell’artiglieria divisionale.
«Non vedo Schultz..» mormorò il comandante del 1° RECO.
«Non sai niente? Non è stato convocato per questa riunione. Mummert l’ha spedito a Bonn, in licenza.»
Beck fece un sorriso cupo.
«E come mai? Suona come una punizione…»
«Credo che la cazzata che ha fatto a Korga’t gli sia costata cara. Mummert quando ha letto il rapporto di un certo capitano era furioso. Voleva mandare Schultz sotto processo.»
«E chi gli ha evitato la corte marziale?»
«Il generale Dax. Sembra che la Leggenda sia allergica ai magistrati ed agli avvocati. Ha semplicemente detto a Mummert di sbarazzarsene nella maniera più discreta e veloce possibile. Avrai un nuovo comandante di battaglione, a quanto pare» disse Böhm ridacchiando a sua volta.
«Ho perso il tenente Heinrich a Korga’t. Non tollererò altri errori di quel tipo da parte di chi comanda» ringhiò Beck a bassa voce.
Böhm fece spallucce.
«La guerra è un gran casino, Werner. È facile fare errori. Anche Mummert ne ha fatti.»
Beck si girò lentamente e l’altro si accorse che aveva stretto le mani a pugno fino a farsi diventare le nocche bianche.
«Ci sono errori ed errori. Ci sono quelli fatti in perfetta buona fede da ufficiali esperti e capaci o perchè hai di fronte un nemico abile ed ingannevole. Quello che ha fatto Schultz a Korga’t non rientra in nessuna di queste due categorie. E ti posso giurare che se il prossimo comandante mi fa perdere degli uomini perchè è un incapace e sopravvivo, sarò io la sua corte marziale» sibilò a voce bassa.
Böhm impallidì, poi scosse la testa e si chinò verso Beck.
«Ti capisco, ma tu devi darti una calmata. Aspettiamo quello che Mummert ha da dire» bisbigliò a voce bassa.
Il comandante del 1° RECO si sentì improvvisamente fuori posto.
Sembro un pugile suonato. Ho assoluto bisogno di togliermi la divisa di dosso per qualche giorno.
Allentò la stretta dei pugni e tentò di abbozzare un sorriso.
«Hai ragione, Pauli. Devo darmi una calmata.»
In quel momento entrò il generale Mummert, impeccabile nella divisa di servizio verde costellata di nastrini. Sulle spalle brillavano le stellette da generale di divisione.
Il capo di Stato Maggiore della Divisione fece per dare l’attenti, ma Mummert lo fermò con uno sguardo.
Il silenzio calò immediatamente non appena l’alto ufficiale salì sul piccolo podio in fondo all’emiciclo e cominciò a parlare.
«Signori e signore ufficiali, della 103° Divisione di Fanteria Federale Blaustein Löwen…»
A quelle parole ci fu un brusio e delle risate di soddisfazione soffocate.
Mummert aveva usato il nome tedesco della Divisione, invece di quello in Inglese standard, una usanza in ricordo di quando la Germania era una nazione indipendente e non un Governatorato della Federazione.
Tutti i membri di nazioni non anglofone sulla Terra lo facevano.
Erano queste piccole infrazioni al codice federale che, in realtà, servivano come valvola di sfogo ad un sistema che aveva amalgamato tutte le diversità e, in un processo che era stato lungo ed a tratti sanguinoso, aveva trasformato un insignificante pianeta della via Lattea in una potenza di livello interplanetario.
La Federazione, poi, aveva lentamente restituito molte competenze ai Governatorati e tenuto per sé solo la gestione delle questioni più grandi, quelle che senza lo sforzo armonizzato e congiunto di tutte le ex-nazioni della Terra non sarebbe stato possibile affrontare.
Mummert proseguì.
«… Vi sarete chiesti perchè è stato deciso di rimandare tutta la divisione in licenza sulla Terra per quattro settimane. Un viaggio di centinaia di anni luce, piuttosto costoso, quando una semplice riorganizzazione in loco sarebbe stata ugualmente possibile…»
Böhm scosse la testa e mormorò verso Beck.
«Io non me lo ero chiesto… ho visto cose assurde da quando mi sono arruolato.»
«Io invece si. E non ho un buon presentimento» rispose l’altro.
Mummert sollevò il suo tablet di servizio.
«… Se prendete il vostro tablet, vedrete che il programma di riorganizzazione e ripristino della capacità operativa della divisione è di tre settimane. Ed è stato ripartito in due periodi. Uno di due settimane ed uno di una settimana. Noterete quindi che manca una settimana di attività…»
L’alto ufficiale guardò tutti i presenti.
«Le prime due settimane saranno di controllo e sostituzione completa dei materiali. Dovrete rimettere in piena efficienza ed a nuovo tutta la vostra unità. E compilare una lista dei materiali che vi servono: ricambi, scorte, munizionamento. Non solo: raddoppierete il quantitativo da portare con noi quando torneremo su Faras. Perché, signori e signore, ci torneremo. Ed a lungo.»
Beck alzò la mano e Mummert lo notò.
«Capitano Beck?»
Il comandante del 1° RECO si alzò in piedi per parlare.
«Si, signore. Normalmente portiamo con noi ricambi e munizioni per sei mesi. Significa che staremo su Faras per un anno intero?»
Mummert ebbe un sorriso tirato.
«Come minimo. E la raccomandazione dallo Stato Maggiore del Corpo di Spedizione è di essere autosufficienti e pronti a qualsiasi evenienza.»
Beck, con una smorfia, si sedette e sussurrò di nuovo a Böhm.
«Perché quando ho un brutto presentimento non mi sbaglio mai?»
La risposta di Mummert generò del brusio, che il generale placò con un lieve gesto della mano.
«Per quanto riguarda la Fanteria Federale, il generale Dax ha richiesto espressamente l’impiego della 103° e di altre cinque divisioni come guarnigione su Faras. Non ci sarà rotazione per parecchio tempo. Per questo ha chiesto ed ottenuto dalla Presidenza della Federazione che la riorganizzazione fosse fatta sulla Terra. Normalmente sapete bene che questo genere di attività richiedono fino a due mesi per essere espletate. Voi dovrete farlo in tre settimane. Alla fine della seconda settimana tutto dovrà essere catalogato, revisionato ed operativo e le richieste del materiale aggiuntivo completate ed inoltrate al comando logistico di divisione. È previsto un break alla terza settimana. Chi lo vorrà potrà prendere una licenza per andare dove crede, con l’unico limite di non poter lasciare il governatorato.»
Un ufficiale che Beck conosceva solo di vista alzò la mano.
«Colonnello Pohl?» disse Mummert.
«Signore, mia moglie vive in Argentina, con i miei figli… »
«Nessuna eccezione. Ma può farla venire qui. È stato previsto un capitolo di spesa apposito. Crede che io non sappia quanti di voi hanno le famiglie fuori della Germania? Conosco a memoria tutte le schede personali di voi ufficiali comandanti.»
Pohl si sedette e Mummert continuò a parlare per dieci minuti esatti, illustrando in con parole scarne ed efficaci la pianificazione, e poi concluse.
«La quarta ed ultima settimana sarà dedicata all’inventario del materiale arrivato ed alla correzione di eventuali mancanze ed errori. Poi ci sarà l’imbarco in assetto d’assalto. Su Faras il fronte è stabile al momento e le forze Lealiste non hanno alcuna possibilità di prevalere. Ma possono crearci parecchi problemi. Dobbiamo essere pronti a toccare la superficie del pianeta sotto un’eventuale fuoco nemico. Domande?»
Ci fu silenzio completo mentre il generale percorreva con lo sguardo la sala riunione.
«Vedo che vi è tutto chiaro. Non perdete tempo, allora, due settimane passano in fretta. I comandanti di brigata, per favore, restino per ulteriori istruzioni. Tutti gli altri possono andare. Vi consiglio di uscire di qui correndo!»
Tutti gli ufficiali sapevano che Mummert non era uso alle perifrasi. Si alzarono e uscirono al trotto dalla sala riunioni, diretti ai loro reparti. Beck raggiunse correndo il suo SUV di servizio, ci saltò dentro e si rivolse al sergente Rilke, che fungeva da autista.
«Al comando di compagnia. Subito!» ringhiò.
Rilke lo guardò come se l’altro fosse impazzito, ma l’unica cosa che gli uscì dalla bocca fu Sì, signore.
Il comandante del 1° RECO impiegò il tratto di due chilometri che separava il quartier generale della divisione dal comando di compagnia per dare una scorsa sul tablet di servizio al programma di riorganizzazione della sua unità.
Imprecò a bassa voce.
«Guai, signore?» domandò finalmente il sergente Rilke.
«Ti ricordi quando hai fatto il corso basico per entrare al RECO, sergente?»
«Sì, signore, come se fosse ieri.»
«Ti ricordi la marcia per le selezioni?»
«Certo che me la ricordo, capitano! Mangiavo marciando! Ed a dirla tutta, ho anche imparato a dormire marciando...»
«Beh, per due settimane sarà la stessa cosa. Tutte le libere uscite sono revocate.»
«I ragazzi non saranno contenti…»
«Se ne faranno una ragione.»
La piccola valle laterale era senza sbocchi, chiusa da una corona di montagne incappucciate dalla neve.
Lo spartiacque tracciato dalle cime definiva un confine: da una parte il Governatorato di Germania, dall’altra quella che una volta era l’Austria. L’Obersalzberg era pieno di posti incantevoli come questi, popolati solo da rade malghe di montagna e paesini di quattro case, molto spesso appartenenti ad un’unica famiglia.
Sul pendio, molto in alto, appena al di sotto della linea della neve, una figura uscì dai boschi di larici ed abeti e si diresse con passo spedito lungo un sentiero appena visibile.
Werner Beck respirò con forza nell’ultimo tratto in salita.
Non era affatto in affanno, nonostante il dislivello che aveva risalito nelle ultime tre ore fosse stato notevole: più di mille metri. La perfetta forma fisica gli aveva permesso scalare i pendii, attraverso sentieri tortuosi, con la massima facilità.
Ottobre, secondo il Calendario Unificato Terrestre, aveva regalato una magnifica giornata di sole, fredda e limpida come l’acqua di un lago alpino. Tutte le cose risaltavano nei loro colori, come se un divino pittore avesse speso la notte a ridipingerle per rimetterle a nuovo.
Il sentiero piegò a sinistra e poi a destra.
Beck passò un ponticello su un torrente scrosciante di acqua limpida.
Si guardò attorno.
Ho raggiunto la linea della neve. Manca poco…
Alzò lo sguardo e vide la malga che voleva raggiungere.
In linea d’aria era poco più di un chilometro.
Ma sapeva che ci avrebbe impiegato almeno un quarto d’ora, perchè dopo il ponte avrebbe dovuto indossare le racchette da neve e il sentiero diventava scosceso e tortuoso.
Guardò verso il fondovalle, mille e duecento metri più in basso, il gruppo di case in legno e intonaco: da alcune aveva iniziato ad innalzarsi un filo di fumo dai comignoli.
Una ridda di pensieri lo colse, mentre camminava in mezzo a due muri di neve alti un metro.
Bad Steinhaus, dove era nato, era un piccolo villaggio dove i cambiamenti di dieci secoli avevano lasciato pochi segni. Era un posto tranquillo, lontano dai clamori e dalla grandezza della Federazione. La gente viveva ancora di agricoltura e seguiva ritmi e tradizioni nati molto prima che la Terra fosse retta da un solo governo e si espandesse nella galassia.
Per raggiungerlo da Blaustein, Beck aveva dovuto prendere un pullman antigravità fino a Salisburgo, nel Governatorato austriaco, e poi rientrare in Germania prendendo la coincidenza.
Gli abitanti di quella valle remota stentavano a parlare Inglese Standard. E non parlavano correttamente l’Alto Tedesco da almeno cinque secoli. Avevano imbastardito il dialetto locale con l’Inglese standard, creando una curiosa mistura, difficilmente comprensibile per chiunque altro non fosse del luogo.
C’era un proverbio che gli anziani si ripetevano di generazione in generazione: Wer im Dorf geboren wird, im Dorf stirbt. Chi nasce nel villaggio, nel villaggio muore.
Beck, e pochissimi altri giovani, avevano avuto l’ardire di lasciare Bad Steinhaus.
Uno di quelli, che, assieme a lui, avevano cercato di vedere il vasto mondo, era il suo amico Karl Freisler. Si erano arruolati assieme, a diciotto anni, contro il parere dei genitori, nella Fanteria Federale. Ed avevano avuto inizialmente la fortuna di essere destinati alla stessa unità, la 98° Divisione di Fanteria Coloniale Leggera, un’unità di montagna con sede nei pressi di Garmisch-Partenkirchen. Ma Karl, l’anno dopo, aveva fatto domanda per il corso da ufficiale.
La domanda era stata accolta e sebbene si fossero tenuti in contatto, non si erano più visti. Beck aveva poi seguito la strada dell’amico ed aveva superato il corso ufficiali. Sottotenente di fresca nomina, era stato schierato con la sua divisione su Moras, al comando di un plotone. Sapeva vagamente che anche la 103° Divisione, dove Karl aveva raggiunto il grado di capitano, era su quel pianeta.
Poi le cose erano precipitate.
L’invasione Urdas li aveva spazzati via e la Federazione aveva dovuto evacuare il pianeta. Alla 98° Divisione era stato dato il compito di proteggere una zona vicino lo spazioporto di Aras. Erano stati scelti per essere sacrificati e permettere al grosso di salvarsi. Durante il caos degli ultimi giorni, prima del Periodo Nero, convogli in ritirata passavano nella zona che la sua divisione controllava. Uno spettacolo penoso e deprimente, che gli ispirava rabbia.
Beck non si capacitava come mai la Federazione, un tempo così potente, si stesse arrendendo al nemico. Si domandava in continuazione perché quel pianeta, da secoli leale ai Terrestri, dovesse essere abbandonato ad una sorte terribile.
Ci furono attacchi tutti i giorni, sempre più violenti, sempre più decisi, sempre più letali, e il plotone di Beck perse metà degli effettivi nel giro di una settimana, nel tentativo disperato di tenere aperta la strada per gli ultimi convogli che si dirigevano verso le astronavi in partenza.
Giunse l’ordine di tenere il passaggio aperto per l’ultima colonna. Dopo non ce ne sarebbero più state. E di organizzarsi in piccoli gruppi per dirigersi verso le foreste a nord di Aras, per ricongiungersi al grosso delle truppe Federali.
Il gruppo di Fanteria che dovevano proteggere si presentò nel bel mezzo di un furioso attacco Urdas, e venne massacrato. Quando Beck chiamò l’evacuazione medica, si presentò una sola ambulanza antigravità. Non ce n’erano altre. E non ne sarebbero giunte altre.
Mentre dava gli ordini per ritirarsi, riconobbe uno dei soldati che veniva caricato sull’ambulanza stracolma di feriti e di morenti.
Era Karl, ferito gravemente: il braccio destro era stato maciullato da un colpo di fucile al plasma e la parte destra del corpo era in condizioni non molto migliori.
Beck si era avvicinato per assicurarsi che fosse caricato e che giungesse vivo all’ospedale da campo.
Quando il tenente medico, uno Svedese, esausto e con la divisa sporca di sangue, gli aveva risposto che non gli assicurava nulla, il Tedesco lo aveva fulminato con gli occhi.
«Tenente, si assicuri che il capitano Freisler sopravviva. Altrimenti le posso assicurare che mi dovrà parecchie spiegazioni» aveva sibilato Beck.
L’ufficiale medico era scoppiato in una risata isterica.
«Lei ed i suoi siete sacrificabili. Rimarrete per sempre su Moras. Nessuno di voi vivrà tanto a lungo da poter chiedere spiegazioni. E lo sa solo Iddio se vorrei chiederne io ai miei superiori…»
Il Tedesco rimasto senza parole, cosa rara, ed in preda ad una rabbia sorda.
«Si tolga dalle palle tenente Johannson (oppure era Gunnarson? Non lo ricordava più…) prima che le teste di silicio ricomincino a spararle addosso. O che lo faccia io…» aveva sibilato.
«Siete morti. E forse sono morto anche io. Che Iddio l’aiuti, tenente» aveva risposto l’altro.
Poi era montato sul mezzo, camminando tra corpi menomati e insanguinati ed aveva urlato al pilota di partire.
La rampa di carico dell’ambulanza antigravità si era alzata e quando il veicolo era sparito alla prima svolta del fondovalle, Beck aveva capito, con un senso di smarrimento che gli aveva dato le vertigini, che su Moras la Federazione aveva cessato di esistere.
I ricordi si interruppero, mentre con le racchette da neve Beck produceva camminando un rumore sordo. Ora c’erano solo le montagne e gli ultimi metri di un ampio sentiero che finiva nel piccolo cortile di una malga.
La porta dell’abitazione si aprì e una figura barbuta apparve.
Karl Freisler era vestito con i calzoni da lavoro ed un maglione alla norvegese a collo alto tessuto in lana, una cosa che non si vedeva spesso per lo scarso uso di fibre naturali che era in voga nella Federazione. E sorrideva.
«Ciao Werner. Entra. Siamo in pieno minimo di Maunder sulla Terra, non lo sapevi?»
Beck abbracciò l’amico con cautela.
Nonostante i guanti e il vestiario per proteggersi dal freddo, percepì dove finiva il corpo biologico di Freisler e dove iniziavano le protesi bioniche che gli permettevano una vita perfettamente normale.
L’altro usò solo il braccio sinistro. Poi si distaccarono e finalmente Beck entrò in casa.
Freisler chiuse la porta e scosse la testa.
«Non mi rompo più. Le protesi si sono saldate bene alle ossa. Ci sono voluti quasi quattro anni.»
Beck annuì.
«Il braccio destro però…»
«Non mi va di stritolarti. In fondo sei un amico…»
Ridacchiarono.
«È così potente la protesi?»
«Eccome! I problemi ci sono stati solo fino a quando lo scheletro organico non si è saldato completamente agli innesti. E poi la rieducazione. Ora potrei sollevarti usando solo il braccio destro.»
«E la gamba destra?» chiese Beck mentre si sfilava lo zaino e lo poggiava a terra.
Il sorriso di Kurt Freisler fu oscurato da un’ombra.
«Amputata e protesizzata l’anno scorso. Era messa troppo male. Ho rischiato un’embolia da distacco di coagulo. Ora togliti quella roba e vieni in cucina.»
Beck si tolse la giacca a vento, il cappello e gli stivaletti in Hypertex, rimanendo con i piedi coperti da robusti calzettoni in sintetico traspirante.
Attraversò il piccolo ingresso foderato in legno scuro e seguì l’amico nella minuscola cucina.
Tutto era tradizionale in quel posto, inclusa la disposizione dei mobili e la fattura.
Apparentemente la Freisler Alm era rimasta nel ventesimo secolo.
«Ti aspettavo. Il caffè è pronto… “ disse Freisler.
Beck ghignò.
«Il tuo caffè fa schifo…»
Risero entrambi.
«È vero. Ma non i miei krapfen all’albicocca. Ricetta di tua madre…»
L’altro sbarrò gli occhi.
«Stai scherzando? Ti ha dato la ricetta?»
Freisler annuì ed aprì il forno.
Un odore di zucchero e cannella si sparse per la cucina.
Beck lo riconobbe immediatamente e gli venne l’acquolina in bocca.
L’altro mise due tovagliette, riempì due grosse tazze in ceramica di caffè bollente e pose in mezzo al tavolo un piatto con una mezza dozzina di krapfen gonfi e morbidi.
Non parlarono fino a che entrambi non ebbero sorseggiato un po’ di caffè e mangiato un dolce a testa.
Fu Freisler a parlare per primo.
«Che ci fai qui? La guerra su Faras è finita?»
«No. Tutt’altro. Sono qui in licenza. Alla fine della settimana torno a Blaustein. Poi ancora un’altra settimana per il controllo dell’equipaggiamento e l’imbarco. E si torna all’inferno» rispose Beck dando un morso ad un krapfen e facendo fuoriuscire la marmellata di albicocche. Sospirò e chiuse gli occhi, come se stesse gustando qualcosa di divino.
«Potevano farlo in loco. Che bisogno c’era di un costosissimo viaggio interstellare per poi rimandarvi indietro?»
«Un’idea della Leggenda… Sembra che su Faras dovrò starci per un bel pezzo.»
«Dax? Devo ancora inquadrare quell’uomo. Quanto?»
«Minimo un anno…»
Karl Freisler emise un fischio.
«Ti hanno mandato qui come premio di consolazione prima di fotterti.»
«Non ho idea. Ma non credo tu sia lontano dalla verità.»
«Come vanno le cose lassù? Faras non si vede nemmeno con i telescopi dalla Terra. Ed i giornali ora sono occupati con la Fronda e la protesta per il contante.»
«Un pianeta dominato dalle donne. E gli uomini sono trattati come schiavi. Non esitano a sparare anche sui loro, se serve ad ucciderci.»
Le immagini di Korga’t, diventata una tomba per tutti i suoi abitanti, gli salirono alla mente e fecero diventare il suo viso una maschera di pietra.
«Brutta faccenda. Fanatiche come gli Urdas?»
«È diverso. Sono crudeli con la loro stessa gente anche se sanno di non poter vincere. Nonostante questo, sacrificano anche gli innocenti. Gli Urdas non lo facevano per ideologia, ma per preciso calcolo tattico. Non bruciavano le loro vite inutilmente.»
Freisler annuì.
«Vero. Erano dei figli di puttana estremamente razionali. E degli ottimi combattenti.»
«Nostalgia della Fanteria, Kurt?»
L’altro bevve un sorso di caffè caldo e scosse la testa.
«Nemmeno un po’. Quel pezzo della mia vita è passato per sempre. Ho dato alla Federazione e mi è costato caro.»
«Hai la pensione da reduce e da invalido, però.»
«Non voglio dipendere dalla carità federale. Dal prossimo anno completo il progetto di riattivare i pascoli di alta quota. Produrrò burro e formaggi di altissima qualità.»
Beck ridacchiò.
«Non ci farai molto…»
L’altro lo guardò sottecchi.
«Non ci scherzare troppo su, Werner. Ho dato un’occhiata su Fednet. Prodotti di nicchia per persone molto ricche e molto esigenti dal punto di vista gastronomico non ce ne sono molti. Avrò la mia fetta di mercato. Come sono i krapfen?»
«Divini… sono quasi meglio di quelli che fa mia madre per la sua pasticceria… »
«… Non mi dire che…» aggiunse Beck sbarrando gli occhi.
Questa volta fu Freisler a ridere.
«Ho già iniziato la produzione pilota durante la scorsa primavera. Alla fiera di Monaco di Baviera ho vinto tutto quello che c’era da vincere. E quei krapfen sono fatti usando il mio burro. Erba, quota, animali… tutto selezionato attentamente. E produzione supervisionata da umani, non totalmente automatizzata come fanno ora.»
Beck prese un altro krapfen e se ne mise metà in bocca.
«Sai, Kurt… credo che farai un sacco di soldi!» disse masticando con la bocca piena.
Ci fu un’altra risata.
Parlarono dei progetti di Freisler per un’altra mezz’ora, poi l’argomento virò su Moras.
«La Morassiana… la vedi ancora?»
«Si, Kurt. È su Faras. Si è arruolata come infermiera. Lo ha fatto per seguirmi. A fine campagna lascio la Fanteria e mi sposo.»
Freisler rimase sbalordito per un attimo. Poi un’espressione di gioia si dipinse sul viso barbuto.
«Queste sono notizie, amico mio! Torni a Bad Steinhaus con lei? Piccoli Morassiani e piccoli Terrestri in arrivo?»
«Vado a vivere su Moras. I suoi già non danzano di gioia all’idea, se porto la loro figlia a qualche centinaio di anni luce da casa diventeranno furiosi. E poi Moras è un bel posto. Dove vivono loro rassomiglia molto all’Obersalzberg.»
«Non credo ti verrò a trovare, Werner. Non prendertela, ma non tornerei su Moras nemmeno se mi coprissero d’oro» disse Freisler sorridendo ma in tono basso.
Beck annuì.
«Non me la prendo. Ti capisco. Vedrò di tornare io di quando in quando. Gli amici sono preziosi.»
«Ed i genitori…»
«Che cosa vuoi dire, Kurt?» mormorò l’altro.
«Chiediti perché tua madre mi ha passato la sua ricetta dei krapfen… e non solo quella.»
«Quali?»
«Tutte. Non c’è altro modo di dirtelo, Werner. La pasticceria di tua madre a Bad Steinhaus diventerà un mio punto di vendita… ho fatto un’offerta ed ha accettato. Firmiamo le carte tra due settimane.»
Beck guardò l’amico con una espressione sbalordita, senza proferire parola.
«Juditha è malata. Ed è stanca. Di me si fida. E non vuole dare ad altri che non siano del villaggio la sua attività» proseguì Kurt a bassa voce.
Seguì un lungo intervallo di opprimente silenzio.
Nella cucina illuminata dai raggi del sole che si riflettevano sulla neve candida all’esterno e filtravano attraverso le finestre dai doppi vetri le due figure restarono immobili, con la tazza di caffè fumante nelle mani.
«Il giorno che mia madre si è sposata era un sabato…» disse improvvisamente Beck posando la tazza sul tavolo con un gesto meditato.
L’altro annuì e non lo interruppe.
«… Il venerdì, mio padre Wolfgang e mia madre Juditha andarono dal parroco… allora c’era padre Günther…»
Kurt ebbe un risolino.
«Lo prendevamo in giro di nascosto, perché avevi scoperto che faceva Günther anche di nome e lo chiamavi Günther Günther…»
Beck accennò solo ad un sorriso stiracchiato.
«… Si ricordo. Ma era un buon prete. Un brav’uomo davvero. Beh padre Günther Günther acconsentì e mio padre e mia madre si sposarono alle sette e trenta di mattina, presenti loro, Günther Günther e i testimoni. Nessun altro. Finita la cerimonia, andarono a casa, si tolsero gli abiti nuziali, si vestirono normalmente e alle otto e trenta, come tutti gli altri giorni, aprirono la Konditorei, lui al forno e lei al bancone. Non hanno mai fatto il viaggio di nozze. Non sono mai usciti da questa valle. E quel forno con la pasticceria è stata tutta la loro vita.»
Sospirò.
«È una donna forte. Quando sono arrivato, ieri mattina, non mi ha fatto capire in che condizioni si trovasse. Ma se ha deciso di dare via l’attività significa che ha tirato i remi in barca» aggiunse Beck.
Guardò Kurt Freisler.
«Per quanto ne ha?»
«Juditha non parla con me di queste cose.»
«Si può curare con la terapia criogenica…»
Freisler scosse la testa.
«Gliel’ho detto. Non ne vuole sapere.»
«Gli parlerò io. Non te la prendere, non è perchè voglio metterti i bastoni tra le ruote Kurt…»
L’amico alzò la mano e la scosse.
«Non devi nemmeno dirlo. Se le fai cambiare idea per me non c’è problema. Solo una cosa…»
«Cosa?»
«Tu ripartirai tra due settimane. E tornerai, se torni, tra un anno. Sei sicuro che la troverai ancora viva?»
Beck si passò la mano sul viso e si sentì improvvisamente stanco.
«Non posso mollare ora la mia unità.»
«È un dilemma morale che ti appartiene, Werner. Non vorrei essere al tuo posto.»
Cambiarono discorso e chiacchierarono ancora per una ventina di minuti.
Poi Beck si alzò, si recò, seguito da Freisler, all’ingresso.
Si rivestì ed indossò lo zaino.
«Torni a valle?» chiese Kurt Freisler.
«No. Proseguo fino alla croce dello Schwarzspitze, a cavallo del confine. Voglio arrivarci prima di mezzogiorno.»
«Tutta questa neve ti rallenterà parecchio. Vuoi che ti accompagni?»
«No. Ho bisogno di stare da solo. Comunque grazie per l’offerta.»
«Capisco. Non fermarti troppo lassù. In caso ripassa qui. I posti letto non mancano.»
Werner Beck alzò solo il pollice, aprì la porta, rimanendo abbagliato per un istante dal candore della neve, e senza aggiungere altro iniziò l’ultimo tratto di una lunga salita.
Infitta nel suo basamento di pietra e cemento come una specie di Excalibur, la croce in ferro si ergeva sul punto più alto della cresta, segnando la cima dello Schwarzspitze ed il confine tra i Governatorati di Austria e di Germania.
Poco dopo mezzogiorno, Beck percorse gli ultimi metri, fino a quando non fu che una piccola figura accanto alla struttura alta quasi sei metri, rinforzata da robusti cavi di acciaio per resistere ai potenti venti delle tempeste invernali, e si guardò attorno.
Le rade nuvole, spazzate da un vento gelido, formavano pennacchi a bandiera sulle cime circostanti, la chioma degli alberi nelle foreste stava lentamente virando al giallo ed al rosso oro dei lecci ed al verde scuro degli abeti. I pascoli si stendevano negli spazi liberi come tappeti smeraldini, costellati qua e là dall’occhieggiare di minuscole case in intonaco bianco e legno, ciascuna con un piccolo giardino ordinato attorno a se e la natura selvaggia pochi passi più in là. Se i trattori stavano lavorando, lui non aveva modo di accorgersene: erano tutti elettrici propulsi da barre di CLT-5. L’epoca degli echi lontani di motori a scoppio che si perdeva nell’aria era finita secoli prima. Ma era sicuro che i contadini sulle malghe stessero affrettandosi a fare gli ultimi lavori prima della pausa invernale, quando la neve tra qualche giorno fosse scesa implacabile più in basso.
A fondovalle, dove la statale che attraversava l’intera valle principale e che seguiva il corso del fiume Silber incrociava la strada che scendeva da quella laterale, si stendeva il gruppo di case dai tetti rossi e marroni che formava il villaggio di Bad Steinhaus, con l’allegra cascata che, dalla parte opposta dell’argine, formava i laghetti da cui la località aveva preso il nome.
Beck sospirò, commosso.
È un luogo di una bellezza incredibile. Eppure sto progettando di lasciarlo per sempre.
Spazzò con lo stivaletto la neve che si era accumulata sul gradino in pietra del piedistallo della croce e si sedette. Si tolse lo zaino e cominciò a tirare fuori il cibo: frutta secca e tè caldo.
Quando si sentì rinfrancato, estrasse lentamente dalla giacca a vento in Hypertex il suo palmtop e lo accese.
Il messaggio apparve davanti ai suoi occhi:
Ho sbagliato qualcosa? Ela
Ripensò alla conversazione che aveva avuto con Kurt. Ed a sua madre.
Il suo villaggio era lì, circa duemila metri più in basso, una serie di puntini che si raggrumavano attorno alla chiesa ed all’unico incrocio importante. Ne conosceva ogni viuzza, ogni angolo.
Ogni faccia.
Sta per cambiare tutto. Tutto qui sarà diverso.
Per un momento il panorama davanti a lui diventò bidimensionale, della consistenza di un sipario.
E seppe immediatamente perché.
La sua mente aveva cristallizzato, in uno straordinario esercizio mentale, tutto ciò che era stato fino a quel preciso istante. E che non sarebbe stato più.
Era nella natura delle cose: il sipario era l’istante presente, il confine impalpabile e implacabile che divideva il passato dal futuro.
E il futuro risiedeva in quella domanda, ormai in sospeso da più di due settimane, che palpitava sullo schermo del suo palmtop.
Attivò il protocollo in distorsione subspaziale. La rete telefonica gli indicò la disponibilità di un canale aperto. Allora digitò la risposta lentamente, con uno sforzo enorme, lettera dopo lettera, come se le stesse togliendo con le tenaglie dalla sua carne.
Mi manchi terribilmente. Lo sapevo già quando ti ho salutata su Faras, ma non sono riuscito a dirtelo. Werner.
Premette l’invio e poi chiuse il palmtop.
Ci sarebbero voluti pochi millisecondi affinchè il suo messaggio venisse sparato nello spazio.
Poi un altro secondo affinchè raggiungesse la Luna, dove risiedeva la stazione di smistamento di tutti i messaggi che arrivavano dalla Terra e un’altro battito di ciglia affinchè la stazione aprisse un canale in distorsione subspaziale per Faras.
Circa venti secondi affinchè raggiungesse la stazione di ricezione in orbita attorno Faras e fosse riconvertito e trasmesso sulla superficie del pianeta.
I tempi più lunghi erano quelli umani.
Forse Ela stava dormendo e si sarebbe accorta del messaggio tra qualche ora.
Forse quelle due settimane di silenzio da parte sua avevano scavato un solco incolmabile e lei non gli avrebbe risposto affatto.
Si alzò, si rimise lo zaino e calzò le racchette da neve, per affrontare la lunga discesa verso il fondo valle.
In quel momento il palmtop trillò per una notifica, facendolo sobbalzare per la sorpresa.
Lo tirò fuori dall’interno della giacca e quando lesse il messaggio un calore intenso gli pervase il petto e, nonostante il freddo, un sorriso gli illuminò il viso.
Nonostante la logica mi dica che tra soli quindici giorni tu sarai di nuovo qui, l’attesa è ugualmente interminabile. Mi manchi anche tu. Ela
Beck non saltellò di gioia solo perchè non voleva rischiare di scivolare sulla neve che stava cominciando a ghiacciare. Urlò forte. Un urlo che esprimeva liberazione, letizia. Un urlo che rimbombò tra le montagne e si perse nella valle sottostante.
Rimise il palmtop al suo posto e accinse a muoversi.
Quando fece il primo passo, si rese improvvisamente conto di aver attraversato quel sipario, quel confine sottile tra passato e futuro. E che non ci sarebbe stato ritorno.
Il blindato antigravità prese posto, assieme ad altri cinque, nel ventre dell’enorme SHAT della Flotta Stellare.
Müller si rivolse a Beck.
«Questo è l’ultimo Werner. Ora tocca a noi imbarcarci sulle SLAT che ci hanno assegnato.»
Il comandante del 1° RECO annuì.
«L’unità non mai stata così pronta ed equipaggiata come ora.»
«Spaccheremo culi farasiani…»
«Non sarà una passeggiata» rispose cupo l’altro.
«Non ho detto questo. Ma qualsiasi cosa loro facciano a noi, gliela rifaremo moltiplicata per mille.»
Beck ebbe un sorriso feroce, come quello di un lupo che abbia avvistato la preda.
«Poco ma sicuro.»
In quel momento udirono una voce calda e decisa alle loro spalle.
«Capitano Beck, completato il carico?»
Müller e Beck si voltarono e si ritrovarono di fronte ad un uomo in uniforme dalla corporatura atletica, con gli occhi azzurri, i capelli biondissimi tagliati a spazzola e dal viso deciso e gioviale, con la mascella leggermente pronunciata.
I due ufficiali salutarono militarmente.
«Colonnello Schneider…»
«Riposo. Niente formalità. Qui si lavora… quindi?» rispose Otto Schneider accompagnando la frase con la mano.
«Carico completato. Gli uomini si imbarcheranno in dieci minuti» rispose Beck.
«L’equipaggiamento?»
«Controllato. Due volte. E ricontrollato dal tenente Müller altre due. C’è tutto quello che abbiamo chiesto.»
Müller fece per porgere il suo tablet di servizio a Schneider, ma questo scosse la testa e si produsse in un sorriso teso.
«Non serve. Ho controllato anche io. Due volte. Capitano Beck, lei e la sua unità avete fatto un lavoro eccellente. Ora niente chiacchiere, imbarcatevi e ci vediamo sulla UFSS Aras.»
Di nuovo, Beck e Müller fecero per salutare, ma Schneider non gliene diede il tempo: era già sparito in direzione del prossimo gruppo di soldati del suo battaglione.
«Non ha una scopa in culo come Schultz…» mormorò Müller.
«Non giudico mai un ufficiale comandante per quello che dice, ma per quello che fa» rispose asciutto Beck.
«È benvoluto da tutti, Werner. Tranne dallo Stato Maggiore della Fanteria. È uno che è venuto fuori dalla gavetta.»
«Dove cazzo era quando noi crepavamo su Moras? Quella era gavetta!» ringhiò Beck.
«Datti una calmata. Schneider è in gamba.»
«Scusami. Ma io continuo a non fidarmi.»
«Hai ancora il dente avvelenato per Korga’t. Io sono stato a tanto così dal rimetterci la pelle!»
«Heinrich la pelle non l’ha portata a casa. Non voglio che succeda ancora. Non in quel modo stupido» borbottò il comandante del 1° RECO.
Müller gli diede una pacca sulla spalla.
«So che tieni a tutti noi. Vediamo cosa sarà capace di fare. Per ora si è fatto in quattro per farci avere tutto per tempo.»
Si incamminarono verso la SLAT che li avrebbe portati in orbita, per il rendez-vous con il trasporto d’assalto della Flotta Stellare.
«È quando fioccano le pallottole che si vede la tempra. Qui non ci stanno sparando addosso. Vedremo.»
Raggiunsero gli uomini del plotone comando e Beck pensò solo a verificare che tutti avessero con sé quanto era stato pianificato.
Poi risalirono la rampa di carico e Beck diede il segnale al loadmaster della Flotta Stellare.
La rampa si chiuse con un tonfo sordo e le porte di sicurezza sigillarono in maniera stagna la stiva.
Il potente hummm dei motori antigravità annunciò a tutti che stavano lasciando la superficie della Terra.
Beck si lasciò scappare un sorriso.
Venti minuti. E questa navetta attraccherà alla USS Aras. E tra due giorni saremo di nuovo su Faras.
Si sentì di nuovo diviso.
C’era quello che stava lasciando, la realtà da cui proveniva e di cui l’ultimo testimone, sua madre, si stava lentamente spegnendo.
E c’era la promessa di quello che avrebbe potuto avere: una vita con Ela su Moras.
Sempre che fosse uscito vivo da quella guerra.
Finalmente qualcosa di serio👍
RispondiEliminaCe ne saranno altri. Estratti e qualche capitolo intero. Target: pubblicazione per marzo 2021
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