domenica 17 marzo 2019

SPACEBORNE MARINES: Estratto capitolo 16


Ecco cosa intendo per intenso e cruento


Gli uomini del 1.mo RECO erano avanzati ripulendo casa per casa. Beck aveva suddiviso i suoi in venti gruppi di sei soldati e d’accordo con il capitano Myers dei Marines ad ogni gruppo era stato assegnato un Eso in appoggio. Non appena i Fanti bonificavano un edificio, l’Eso avanzava e teneva sotto tiro qualsiasi cosa nell’area.
E la cosa sembrò funzionare per un po’.
Fino a che Beck ed i suoi non provarono ad entrare in una casa in prossimità al centro di Garadeh.
Il sergente maggiore Göttsch piazzò la minuscola carica alla serratura della casa, mentre gli altri sei elementi, tra cui il capitano Beck ed il sottotenente Müller, si disponevano appena dietro.
Göttsch ordinò mentalmente alla tuta HEAPS la detonazione e con uno scoppio soffocato la serratura fu divelta.
I sei uomini si infilarono rapidamente all’interno, faticando leggermente a causa dell’ingombro del loro equipaggiamento.
E un’azione di combattimento che doveva essere dinamica e veloce diventò immediatamente un incubo dei peggiori.
Beck non seppe mai perchè l’Amazzone che occupava la casa non sparò immediatamente. Teneva il fucile puntato davanti a sé, le pupille dilatate e la bocca atteggiata in un ghigno.
Tra i soldati della Federazione e lei c’erano i componenti di una famiglia: una femmina e tre bambini, due femmine ed un maschio.
«Yretch, qutak[1]!» urlò l’ufficiale Motani.
«Non so cosa hai detto, dolcezza, ma è meglio che posi quel fucile…» rispose ringhiando Göttsch.
Fece per muoversi in avanti, perchè anche se l’Amazzone avesse sparato, la HEAPS lo avrebbe protetto.
Beck lo fermò con un urlo.
«No! Fermati immediatamente!»
Il sottufficiale si bloccò stupefatto.
«Che cosa c’è?»
«Esplosivi! I civili sono minati!»
«Fottuta amazzone!» ringhiò Müller.
«Uscite fuori!» ordinò Beck ai suoi.
«Ma signore…» borbottò Göttsch.
«Quale parte della frase non hai capito, sergente maggiore?»
Senza smettere di puntare il fucile contro l’Amazzone, cinque soldati del 1.mo RECO indietreggiarono ed uscirono sulla strada.
Beck rimase nella sua posizione, tenendo la testa dell’ufficiale farasiano, l’unica porzione visibile, sotto tiro.
«Mahar’ai! Tarak![2]» disse di nuovo l’Amazzone.
Il Tedesco la guardò diritta negli occhi e si chiese se il vetro blindato del suo elmetto permettesse alla Farasiana di vedergli il viso. Probabilmente no.
Ordinò con la mente alla tuta di determinare in punto di impatto della pallottola a quella distanza.
Fece fare al suo M327S movimenti impercettibili fino a che la minuscola croce proiettata sulla sua retina dagli emettitori dell’elmetto non coincise con la bocca dell’Amazzone.
«Non so se capisci l’Inglese Standard, Amazzone. Ma non hai possibilità. Lascia andare questa gente e ti tratteremo secondo le convenzioni della Federazione sui prigionieri di guerra.»
«Io no prigioniera. Tu morirai. Loro moriranno…» rispose l’Amazzone in un rozzo inglese.
«Io non morirò. Tu e questi innocenti invece sì. A quale scopo?»
Lo sguardo di Beck, attraverso la visione notturna della HEAPS, si concentrò su un particolare, reso visibile per una frazione di secondo da un lieve movimento degli ostaggi.
Il detonatore è in un pedale. E lei ci sta sopra in piedi. Se la uccido la pressione sul pedale viene tolta… e salta tutto. Questi civili sono già morti.
«No importante se io muore. No importa se muore loro. Faras sacra. Tu Eretico. Chi muore per Faras va paradiso Amazzoni.»
«Sono stronzate. Lasciali andare.»
Non posso farli saltare per aria. E non sono abbastanza vicino per poterle balzare addosso e sostituire il suo peso sul pedale con il mio. Meglio ritirarsi.
Non ebbe tempo di muoversi.
La finestra al lato destro del salone si ruppe e si udì il grugnito di un fucile ad induzione.
La testa dell’Amazzone ebbe uno scarto violento.
La vista di Beck divenne nera mentre tutti i sistemi della tuta HEAPS si misero in stand by in meno di un milionesimo di secondo.
Si sentì comprimere tutto il corpo da qualcosa di morbido che gli immobilizzò gli arti e perse la presa sul fucile.
Quando riaprì gli occhi era a terra e il salotto dove erano entrati non esisteva più.
Al suo posto c’era un ammasso di macerie, dovuto anche al soffitto che era crollato.
Müller era chinato sopra di lui e lo scuoteva.
«Beck? Sei ancora vivo?»
Il sistema di assorbimento dello shock si disattivò e il Tedesco fu in grado di nuovo di poter usare i suoi arti.
«Che cazzo di domande fai, Hans… »
Si rialzò lentamente e qualcosa cadde dalla sua spalla.
Era intontito per lo shock.
Poi ricordò: Müller aveva sparato dalla finestra del salone centrando la testa della Farasiana. E l’esplosivo aveva detonato uccidendo tutti nella stanza.
Tranne lui.
Guardò cosa era caduto a terra un istante prima ed inorridì: era la mano, troncata al gomito, di un bambino.
Rimase a guardarla fino a che il sottotenente Müller non lo scosse di nuovo.
«Beck? Beck! Muoviti!»
Afferrò l’avambraccio del subalterno con la potente presa della della sua tuta.
«Perchè? Perchè l’hai fatto? Sono morti tutti!»
«Perchè non c’era altra soluzione! C’è una battaglia in corso, te lo sei scordato? Hanno chiamato dal comando di divisione. Mummert in persona.»
Ha ragione. Questo è il modo di combattere dei Farasiani. Selvaggio e senza riguardo per la vita propria ed altrui. Esattamente come…
Gli venne in mente quello che era accaduto cinque anni prima su Moras. Milioni di morti. Attacchi suicidi. Genocidio. Gli Urdas.
«Vaffanculo, Hans. Non farlo mai più» borbottò Beck.
Si rizzò in piedi e prese il fucile.
Il sistema HEAPS proiettò sulla retina il punto di impatto del proiettile. C’era ancora la connessione funzionante tra la tuta e il mirino elettronico dell’arma.
Ordinò mentalmente di disattivarlo e di riattivare il sistema normale.
Lui e Müller si guardarono.
Poi uscì dalla casa senza dire niente. Non c’era niente da dire.
Rintracciò il suo operatore radio, il sergente Gunther Rilke, dietro l’angolo di una casa. Beck era talmente furioso da non fare caso alle pallottole vaganti che cominciavano a cercarlo. Sentì un paio di impatti sulla corazza della HEAPS.
Si girò verso la direzione approssimativa di provenienza, in un gesto pieno di disprezzo per la propria vita e per il nemico.
Incredibilmente il fuoco contro di lui cessò, come se l’invisibile cecchino si fosse reso conto di stare solo sprecando munizioni.
L’ufficiale si mise al riparo dietro il muro e si rivolse all’operatore radio.
«Gunther, cosa vuole da me Mummert?» domandò mentre si toglieva da dosso della polvere di intonaco mista ad un liquido nerastro ed appiccicoso di cui non volle approfondire l’origine.
«Ordini, signore. Dobbiamo fermarci ed aspettare che una squadra di Farasiani ci raggiunga per aiutarci.»
Beck rimase senza fiato.
«Mummert deve essere impazzito.»
Rilke scosse la testa, ma Beck non potè vederlo, a causa dell’elmetto.
«Assolutamente no, signore.»
«Ed in cosa dovrebbero aiutarci quei selvaggi?»
«Ad evacuare i civili che troviamo.»
Il Tedesco annuì.
Ha senso. Se fossero arrivati prima forse quella famiglia sarebbe ancora viva. E non avrei i loro resti addosso.
Sentì un senso di nausea.
«Rilke trasmetti a tutte le squadre di prendere posizione dove sono e di sospendere l’avanzata. Avverti anche i Marines che stiamo per ricevere rinforzi e che sono Farasiani. Non voglio incidenti di fuoco amico. Sopratutto non voglio che i Marines ammazzino dei probabili alleati.»
Poi si alzò, scelse un angolo protetto, si tolse l’elmetto e vomitò.

[1] Eretici! Indietro!
[2] Anche tu! Fuori!

(Spaceborne Marines, FARAS, PJ Horten, 2019)

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