venerdì 4 agosto 2017

INEDITO: Una Seconda Possibilità (POST #100!)


Sono in cammino da prima dell'alba. Io, il mio zaino ed il mio fucile.
Ho lasciato l'auto alla vecchia polveriera che era ancora notte. La provinciale era deserta e l'unica sosta è stata al bar, lungo la strada, dove ho fatto colazione: cappuccino spolverato con il cioccolato ed un krapfen appena fatto.
Un rapido saluto a Gerta, la bionda barista.
Bella Gerta, con il suo sorriso, i capelli raccolti, l'accento tedesco mentre ti batte lo scontrino, gli occhi azzurri che ti illuminano mentre il volto rimane professionale. Il seno generoso che vola sopra il cassetto con i contanti che si apre mentre preleva gli spicci per darti il resto.
Gerta che si aspetta da settimane che la richiami. Ed io che non mi decido.
Quegli occhi che ho osservato, quel sorriso che ho baciato, quel seno generoso che ho accarezzato li sento come una trappola. Sono stati offerti senza che io chiedessi niente. Inaspettati come un dono di un Dio a cui non credo più.
Ho provato, la notte che l'ho avuta, quella vertigine, quel completo abbandono che non provavo più da tanto. Dall'ultima volta che mi sono dato anche io. È che il dolore, dopo, era talmente insostenibile da diventare una crosta spessa fino a farsi corazza.
"Non mi hai chiamata..." mi dice Gerta mentre mi porge il resto.
Mi vergogno. Come si fa a rifiutare una cosa tanto bella?
"No, Gerta."
"Tu non mi pensi..."
"Non è vero..." le rispondo. E non mento. Ma non l'ho chiamata, ha ragione.
"Allora perchè?"
"È lunga da spiegare."
"Sai a che ora stacco. Ho tempo, se ti va. Ma non pensare che aspetterò ancora, Pauli."
Pauli. Mi chiama alla tedesca.
Annuisco.
Mi da il resto.
"Ora ho da fare. Scusami."
Mi lascia li con la mano aperta, rivolta all'insù, come se fossi un mendicante che ha appena ricevuto l'elemosina.
Mi metto in tasca tutto ed esco nell'aria pungente del mattino.
Ad est le montagne cominciano a stagliarsi e finalmente ho rotto il fiato.
La giacca antivento è aperta e cerco di regolare il passo in modo da non sudare.
Conosco la zona palmo a palmo, anche se sono solo due anni che mi sono trasferito in Alto Adige.
Per iniziare a parlare tedesco mi ci è voluto un anno.
Evito il dialetto. Non mi piace. Ma il mio tedesco è più simile a quello di Innsbruck o di Lienz che a quello di Dobbiaco o di Bolzano.
Sono salito oltre la linea degli alberi.
Più in alto non crescono, perchè osmosi e capillarità non ce la fanno.
Restano solo bassi arbusti, l'erba che si fa sempre più rada ed il pietrame che aumenta ad ogni passo.
Do un'occhiata al GPS: sto per superare i 2000 metri sopra il livello del mare.
Non c'è male per un vecchietto.
Gerta. Ha quasi venti anni in meno di me. Ed un figlio. Non mi ha mai detto niente della differenza d'età. Mi ama in silenzio. Come io amo in silenzio quello che ho intorno: le cime, i pendii che mi fanno penare, il bosco, gli animali, il verde.
Tengo il fucile in grembo, per compensare il peso dello zaino.
Avanzo verso un crinale. Sono quasi in zona.
In genere i caprioli pascolano da queste parti. Un ragù di capriolo tra qualche giorno ci starebbe bene.
Potrei portarlo a Gerta, e chiederle scusa. Lei sa come utilizzare la carne. Lei è di queste parti. E non ha dimenticato le tradizioni. Potremmo trattare la carcassa dell'animale assieme.
Il Remington 700 che ho preso solo per questa caccia è in .223 Remington. Non amo i calibri strani, come il .22-250. Prevedo un tiro pulito al massimo a 150 metri. Con la palla da 62 grs dovrò mirare bene per ottenere un abbattimento fulmineo.
L'ho già fatto. E se non sono certo dell'abbattimento non premo il grilletto.
Nessun animale, tranne l'uomo, merita di soffrire quando viene cacciato.
Ho fatto da assistente, le prime volte, ad un amico che pratica la mia stessa caccia. Lui invece spara con margini minimi. E quella volta l'abbattimento non è stato pulito. L'animale è scappato, ferito. Abbiamo inseguito la scia di sangue per tutta la giornata. Il capriolo era finito in un burrone. Dovemmo tornare il giorno dopo e calarci con le corde. Era conciato male ma ancora vivo. Non dimenticherò mai gli occhi di quell'animale, mentre Ferdinand gli parlava e gli puntava la carabina per dargli il colpo di grazia.
Poi abbiamo imbragato la carcassa e l'abbiamo tirata su. Ci abbiamo messo tutto il giorno. Prima issata sul crinale, poi abbiamo costruito con un palo un un trasporto e siamo ridiscesi fino all'auto. Ferdinand aveva un pick-up e lo abbiamo caricato sul pianale.
La mia parte di carne non la volevo. Non era stata una cosa pulita. L'animale aveva sofferto.
Ma Ferdinand mi ha parlato "L'abbiamo sacrificato, Pauli. Non puoi sprecare la carne del suo corpo. Non è questa la legge della montagna. E nemmeno della caccia. Se prendi una vita hai l'obbligo di non sprecare nulla."
Aveva ragione naturalmente.
Ho accettato allora la carne. Poi avevo comprato del vino rosso dell'Alto Adige e un mese dopo avevo invitato tutti gli amici e gli amici degli amici a casa mia, per una enorme cena a base di pappardelle al ragù di capriolo.
La gente aveva gioito e il capriolo non era stato sacrificato inutilmente. Avevo moltiplicato i miei amici. Era venuta anche Gerta a quella cena, con il piccolo Hans, il figlio.
Avevo giurato a me stesso che mai avrei preso una vita in quel modo.
Ora il crinale si staglia nel cielo azzurro. Sono appena le sette del mattino. Ho il fucile a tracolla e sto finendo di attraversare una pietraia con grossi massi, residui di una frana avvenuta decenni prima, quando li vedo.
Stanno pascolando tranquilli.
Mi fermo e rimango in ascolto.
L'importante è non avere fretta. Qui la fretta non ha senso. È un inutile fardello che solo la gente di città riesce a portarsi appresso dappertutto.
Scelgo una posizione e mi acquatto dietro ad un grosso masso.
Sono sottovento. Non possono sentire il mio odore.
Sono praticamente invisibile.
Vedo le schiene e le corna che si stagliano sul crinale.
Brucano senza il minimo sospetto.
Sfilo il fucile dalle spalle e lentamente lo metto in punteria. Non ho ancora intenzione di sparare. C'è sempre tempo per prendere una vita. È un atto di dominio totale. E comporta anche una totale responsabilità. Non sono in guerra. Il capriolo non è il mio nemico. Quindi posso aspettare.
Non ho nemmeno camerato la cartuccia.
Imbraccio il fucile e guardo attraverso l'ottica il piccolo branco. Li conto e li classifico.
Sono nove esemplari, due maschi, tre femmine e quattro piccoli. Aspetto per vedere i piccoli come si comportano. Si avvicinano per poppare mentre la madre bruca. Solo due femmine accettano la poppata. La femmina senza prole è la più vecchia, ha il pelo di colore più chiaro. Deve essere diventata sterile. Il maschio dominante ha la stessa età. L'altro è un maschio giovane. Alla fine ho due opzioni di tiro: il maschio giovane e la femmina più anziana. Il capobranco, i piccoli e le femmine che allattano sono escluse. Sono il futuro del branco. E ragionando egoisticamente, anche il futuro della mia caccia.
Se elimino i piccoli, non ce ne sarà più nessuna. Ed in natura i piccoli sono protetti dai predatori.
Uso il reticolo per una stima della distanza: 120 metri.
Si può fare. Ho scelto la femmina, la più vicina.
Camero lentamente la cartuccia e chiudo l'otturatore. 
Metto lo zaino sulla roccia davanti a me, come appoggio.
Ritorno in punteria.
La vista attraverso lo Zeiss è perfetta.
L'arma è tarata a 200 metri, quindi miro leggermente più in basso.
L'indice ingaggia il primo tempo dello scatto e quando il grilletto si indurisce mi fermo e rimango in tensione. Se tiro ulteriormente, inizierà la sequenza di sparo.
Voglio essere sicuro.
Improvvisamente vedo che la femmina smette di brucare. Uno dei piccoli le si è avvicinato con una andatura sgangherata e saltellando. La femmina anziana gli da un buffetto con il muso.
La cosa si ripete un paio di volte.
Poi il cucciolo ritorna dalla madre.
La femmina che sto per abbattere è una matriarca.
Si volta ed attraverso il cannocchiale vedo che guarda diritto nella mia direzione.
È come se mi domandasse che cosa io stia aspettando.
Ed io mi domando se non sia giusto concederle una seconda possibilità.
Ad occhio ha tre o quattro anni in più delle due che hanno figliato. Capita che ci siano anni a secco. E che una femmina non si accoppi.
Gliela voglio dare questa possibilità?
Tolgo il dito dal grilletto e rimetto la sicura all'otturatore con il pollice.
Il mondo è pieno di possibilità. Ma raramente capitano due volte. A volte la vita ti stronca senza appello. Come le pallottole nel serbatoio del mio Remington.
La femmina ha ripreso a brucare. Io invece penso che in realtà voglio darle una seconda possibilità perchè ne voglio una anche per me.
Ho sbagliato tutto con Gerta. Per paura di provare ancora dolore.
Una vita per una vita. La mia per quella della femmina di capriolo.
Poso il fucile accanto a me e prendo dallo zaino la piccola macchina fotografica che porto sempre con me. Metto lo zoom e fotografo l'animale. In quel modo sarò in grado di riconoscerlo.
Osservo il branco ancora un po', mentre pascola, attraverso il cannocchiale del mio fucile.
Poi mi rimetto in spalla lo zaino, il fucile mi tolgo il giaccone antivento e ricomincio a salire.
In cima al crinale trovo una conca e mi cambio li: tolgo gli abiti sudati e indosso quelli asciutti. I panni umidi li metto sullo zaino ad asciugare, mentre consumo il panino che sarà il mio pranzo. Osservo attorno. Da qui posso vedere la polveriera dove ho parcheggiato l'auto.
Prendo il fucile e lo punto in quella direzione, usando l'ottica per vedere meglio.
Vedo la mia auto. Ed accanto un pick-up.
Ci sono altri cacciatori. E stanno venendo su.
Penso rapidamente. Vedranno il branco. E se sono minimamente dotati di raziocinio, faranno la mia stessa scelta: il maschio giovane o la femmina anziana.
Io ho visto per primo il branco e in qualche modo sento che mi appartiene.
Ho preso una decisione di vita e di morte. E mi scopro a pensare che non permetterò a nessuno di interferire.
Il branco è ancora li. E se seguono il sentiero i cacciatori lo intercetteranno sicuramente. A meno che io non faccia qualcosa.
Finisco di mangiare il panino, bevo dell'acqua. Con la massima calma.
Poi, lentamente, prendo il fucile e mi reco sul bordo della conca. Tolgo la sicura mentre guardo i caprioli.
Mi sentono immediatamente e si voltano tutti a guardare nella mia direzione: sono in allarme.
Punto il fucile verso l'alto e premo il grilletto.
BAM!
La detonazione secca e fastidiosa del .223 Remington risuona per le valli, echeggiando.
I caprioli si danno alla fuga, allontanandosi dal sentiero, e spariscono alla mia vista.
Li ho spaventati. Ma meglio spaventati che morti. Voglio tornare l'anno prossimo e vedere se la femmina anziana ha figliato.
Non ricarico. É mezzogiorno. E la caccia è finita.
Raduno la mia roba, indosso gli abiti con cui sono salito e rimetto nello zaino quelli asciutti.
Poi inizio la strada del ritorno.
Penso a Gerta in continuazione.
Penso alla sua voce con il buffo accento tedesco. E di come invece diventa dolce quando mi dice cosa vuole che gli faccia a letto.
Penso alla sua bocca. E la mia si secca dal desiderio di baciarla.
Penso al fatto che lei qui c'è nata, e che le viene naturale guardare la bellezza che ha attorno ed amarla, mentre io l'ho dovuto imparare.
Accelero il passo ed incontro i cacciatori sul sentiero, come avevo previsto.
Ci salutiamo con un cenno del capo, come si fa in montagna.
Anche se non ci si conosce, in montagna siamo tutti fratelli della stessa madre: la fatica.
Uno si rivolge a me.
"Ho sentito uno sparo, era lei?"
Annuisco.
"Si."
"Sfuggito?"
"Si l'ho mancato."
Ride e pensa che sono una schiappa. Lo pensi pure, non mi importa.
Saluto e proseguo.
Il cellulare riprende vita solo all'incrocio tra Carbonin e Misurina.
Mi accosto e chiamo.
"Oh, sei tu Pauli..." mi risponde.
"Gerta, non posso aspettare che stacchi. Cosa fai a pranzo?"
Cerco di moderare il tono. Ma lei ha capito e la risposta è in tono più basso e gentile.
"Lavoro. Ma se devi passare non importa. Passa pure. Cinque minuti li trovo."
Penso che forse occorrono più di cinque minuti.
Ma che la cosa essenziale da dire prende meno di tre secondi.
"Va bene. Passo da te ora. Io... ho aspettato anche troppo."
Lei ride.
"Si. Non lo fare mai più, Pauli."
"Mai più. Ma dobbiamo parlare. Cinque minuti."
"Va bene. Sono qui. Ora devo chiudere, ho clienti."
Chiudo il cellulare e mi immetto sulla strada.
Senza fretta.
Ho dato una seconda possibilità ad una vita.
Ora vado a scoprire se anche la mia ce l'ha.

2 commenti:

  1. Bello... mi hai fatto sentire il rumore dei passi mentre "Pauli" saliva in quota, ho premuto il grilletto trattenendo il fiato con lui, ho sentito il rumore dello sparo rimbombare nella valle e ho visto anche io gli animali scappare. Grazie.

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