Fosti una buona musa,
perchè credetti che in te ci fosse il divino.
Invece sei stata lo specchio
delle mie illusioni.
E il divino
lo avevo in me.
Non credo nei fantasmi.
Fondamentalmente perché non esistono.
Non almeno in quelli che vengono dall’oltretomba scuotendo
le catene ed avvolti nel loro sudario.
Ma agli altri, quelli che teniamo nascosti nella nostra
mente e che influenzano la realtà che ci circonda, ci credo.
Non ho dormito molto la notte prima.
Comincio ad avvicinarmi alla sessantina, cerco di mantenermi
bene.
Ma le emozioni sono ancora quelle di un ventenne.
Ho un appuntamento, tra ventiquattro ore, a Cagliari.
Ed è decisivo. Una storia iniziata con una donna di una
città lontana, del continente,
Una storia che non vuole decollare, che aspetta, che è
vissuta tra un incontro ed un altro.
Le ho promesso che la andrò a prendere con la mia barca, un
12 metri a vela che ho recuperato e fatto restaurare da gente che lo fa oltre
che per i soldi per passione del mare, e
che la porterò attorno alla Sardegna per una vacanza romantica come non ne ha
mai avute.
Scendo fino a Fiumicino presto, ha appena cominciato ad
albeggiare.
Ho con me la station wagon piena di cibo e di bottiglie
d’acqua, di valigie con indumenti, ricambi.
Il resto è sulla Windflower,
così si chiama il mio monoalbero randa e fiocco.
Quando arrivo trovo il cancello che da sulla darsena chiuso.
Non posso perdere tempo, ho una scaletta ben congegnata. La
marea è quella giusta e mi permetterà di allontanarmi dal’imboccatura del porto
senza problemi.
Avevo avvertito Salvatore, il gestore della darsena, una
settimana prima.
E gli ho telefonato due giorni fa, per confermare tutto.
Ricevendo una sequela di rassicurazioni tutte del tipo non c’è problema, dottò.
Invece sono bloccato qui.
Mi viene la tentazione di chiamare Caterina.
Poi ricordo la conversazione che abbiamo avuto ieri, per telefono, piena di tensione:
Lei: Non voglio scuse Marcello. Non stavolta. Ci vediamo a Cagliari per ora di pranzo.
Lei: Non voglio scuse Marcello. Non stavolta. Ci vediamo a Cagliari per ora di pranzo.
Io: E gli imprevisti? Non
li conti gli imprevisti?
Lei: Ce ne sono già stati
abbastanza in questa storia. Qui conta la volontà. La tua. Ti aspetto fino a
mezzogiorno. Poi parto. Con te o senza di te.
Sarebbe un errore. Tanto varrebbe non partire.
Chiamo Salvatore invece.
Mi risponde dopo otto squilli.
«Ma chi è che rompe i… » inizia. Poi si ferma, perché
deve aver visto il nome del chiamante.
«Dottore, che succede?» aggiunge in tono più conciliante.
«Succede, Salvatore, che mi hai confermato più volte durante
questa settimana che avrei avuto accesso alla darsena oggi, adesso, fino a che
c’è la marea buona per uscire dal canale. Invece il cancello ha un lucchetto
grosso così a chiuderlo.»
«Porca miseria dottò! Abdul il guardiano si deve essere
scordato!»
«Soluzioni?»
«Arrivo e le apro io. Certo che lei si alza un po’ tanto presto!»
«Salvatore, quanti anni sono che tengo le mie barche qui?»
faccio in tono tagliente.
C’è crisi. Non può essere cosi stupido da rinunciare ad una
comoda rendita.
«Mi muovo subito, certo che ci vorrà un’ora…»
So dove abita. A quest’ora, di agosto, al massimo ci mette
venti minuti.
Sta cercando di prendesela comoda.
Dentro di me ribollisco di rabbia.
Caterina. Ci penso ogni momento. Ed ogni momento sento c’è
qualcosa che si oppone. Soltanto che non so ancora cosa.
Prendo una decisione. Contraria a tutto quello che sono: una
persona morigerata, amante della legalità, delle regole. Mi incazzo anche per
quelli che parcheggiano a cavallo delle righe al supermercato. Ma qui c’è la
stupidità umana, l’infingardaggine che si stanno mettendo tra me e l’inizio di
un viaggio. Tra me e l’inizio di una nuova vita.
Devo fare qualcosa. Devo agire. Lei non accetterà scuse. O
la perderò.
Esco dall’auto, apro il portabagagli e prendo una cosa che
avevo per altri scopi: la cassetta degli attrezzi.
Ho una pinza troncatrice. La prendo ed cinque secondi dopo
la catena che avvolge il cancello cade sferragliando.
Lo apro, entro e poi lo richiudo, mettendo la catena meglio
che posso.
Poi vado all’ufficio di Salvatore e metto un foglio da
cinquanta euro sotto la soglia della porta, chiusa pure quella.
È un risarcimento per aver violato la sua proprietà. E gli
deve bastare. Se perdo la mia coincidenza non c’è risarcimento che tenga. E se
torno in anticipo, perché sono arrivato troppo tardi alla darsena di Cagliari,
gli farò rimpiangere il giorno che ha accettato di ospitare la mia barca. E di
avermi fatto trovare il cancello chiuso oggi.
Controllare la barca, togliere le coperture, accedere gli
apparati uno ad uno mi piace. Mi piace
ridarle vita. Perché la barca non è solo un ammasso di legno, fibra di
vetro, cavi, stoffa e metallo.
No.
Quando l’artigiano la mette assieme compie un atto simile
alla creazione primordiale e il risultato è maggiore della semplice somma delle
parti.
Ogni barca ha una sua anima, una sua personalità. Ce ne sono
certe malvagie, che non ti daranno mai una navigazione sicura e tranquilla e
manifesteranno la loro personalità perversa con mille guasti. Altre che
affronteranno persino le tempeste e ci passeranno attraverso indenni, fino alla
sicurezza del porto d’arrivo.
Non occorrono meccanici o carpentieri nel primo caso. Ma un
esorcista. E nel secondo caso, qualsiasi intervento fatto con amore riparerà
quei rari inconvenienti.
La mia Windflower
è una di quelle buone. Sento che posso fidarmi di lei in ogni momento. E lei si
fida di me, perché sa che la amo ed amo il mare solo quando sono con lei. E sto
attento che non capiti niente di male.
Entro in cabina. Non è spaziosa, ma il mogano trattato a
lucido, gli ottoni forniscono un
ambiente caldo ed accogliente. Amo l’ordine, in quell’ambiente il caos ti
indurrebbe alla disperazione dopo solo 24 ore di navigazione. Comincio a riempire i gavoni di cibo, di acqua, separo
le casse di acqua potabile in diversi gavoni, perché se uno si dovesse allagare
o lo scafo si danneggiasse in quel punto, avrei il resto. Sempre che Windflower
non affondi. Ma non ci voglio nemmeno pensare.
Poi il cibo. Cibo secco nei gavoni. Quello deperibile nel
frigo, che ora comincia a raffreddarsi: latte, carne, uova ed ancora acqua. È
incredibile come sia preziosa l’acqua potabile quando sei in mare, un posto
pieno di acqua.
Accendo la radio VHF e la metto sulla frequenza della
Capitaneria di Porto, il Raymarine sia nel quadrato che quello nel pozzetto del
timoniere, all’esterno.
Ora è la mia casa. Non è più solo una barca.
Mi viene voglia di fare colazione. Metto sul sedile del
quadrato del comandante la borsa con il necessario per resistere 24 sveglio: tè
e caffè caldo in thermos, biscotti, barrette energetiche, confezioni di salumi
secchi. In teoria non ho bisogno di fermarmi e scendere in cabina per mangiare.
Mi sento chiamare.
«Dottò? È qui?»
«Si, salgo subito Salvatore.»
Esco e la figura barbuta e panzuta del gestore mi accoglie
con un sorriso di circonstanza. Se è arrabbiato perché ho forzato il cancello
non lo dà a vedere.
«Hai trovato i soldi?»
«Si dottò poi lo riparo io, non ci pensi.»
Annuisco.
«Mi dispiace, ma ho una cosa importante che mi aspetta.»
«Tutto a posto? Pronto a partire?»
«Si grazie. Puoi mollare gli ormeggi? Intanto tiro su i
parabordo.»
«A sua disposizione dottò…»
I soldi che gli passo ogni anno per ormeggiare la barca da
lui, e la mia è una di quelle che prendono posto, gli fanno ancora comodo.
Non devo giudicarlo troppo male. Ma sto per partire in
orario e l’incazzatura mi è passata.
Salvatore molla le gomene di prua e di poppa e le recupero,
stivandole nei gavoni appositi.
Saluto e mi metto al timone.
Il motore si accende al primo colpo, un Volvo diesel da 50 cavalli, e ronfa come un gatto che faccia le fusa. Do colpetti di gas e la
barca si muove. Timone a sinistra, timone a dritta. Saluto Salvatore, che
ricambia.
Poi mi concentro. Passo file di barche ancora con le
coperture e sebbene frema, trattengo la mia impazienza e governo l’abbrivio
della barca nei passaggi più angusti.
Quando passo l’ultima barca, l’ultimo peschereccio, e passo
l’ultimo tratto di molo con il faro dipinto bianco e rosso che segnala
l’ingresso del canale, metto a mezza forza.
La barca acquista velocità, se dovessi riassumere il fremito
dello scafo e degli alberi, direi che è contenta, sta gioendo perché vede il
mare aperto.
Il mare è agitato ma le onde non sono alte. Sono corte e
cattive.
Windflower le
affronta fendendole con la prua aguzza.
Punto per 270 gradi e metto il pilota automatico. Ho fatto
mettere winch elettrici dappertutto. Posso comandare randa e fiocco, ed
all’occorrenza anche lo spin, con un bottone.
Ma la fatica di svolgere le vele e di predisporle è la
stessa.
Metto le ali alla barca. Ali bianche di stoffa sintetica,
grandi e poderose.
Torno al timone e premo il bottone. Prima la randa. Sale su
senza esitazioni e già da sola da spinta. Spengo il motore e mi metto di
bolina. La barca già naviga da sola, insensibile agli schiaffi delle onde da
sinistra.
Poi il fiocco. E non sale. Premo il bottone. Nulla. Non
posso andare solo di randa.
Metto il pilota automatico e mi precipito al winch,
incurante dei sussulti dello scafo che prende il mare appena di lato di prua.
Tolgo la protezione della scatoletta di derivazione ed
allibisco.
Si sono tolti i fili dal morsetto. Troncati.
Impreco. È inspiegabile. Infilo la cabina come un razzo e
prendo cacciavite, tronchesi e pinza spellatrice e me li ficco nelle capaci
tasche della giacca a vento.
Due minuti. E i fili sono di nuovo collegati. Poi capisco
perché è successo. Il fermo dei fili si è rotto, un pezzo di plastica da pochi
centesmi, e le vibrazioni hanno troncato il filo. Deve essere successo molto
tempo fa. E gli ultimi scossoni hanno finito il lavoro.
Rimetto la protezione e premo il bottone di nuovo. La randa
sale e si gonfia, la barca salta in avanti, come se la mano di Dio si fosse
appoggiata alla poppa.
Si inclina. Prende abbrivio saltando di onda in onda.
Leggo la velocità sul navigatore e sorrido.
Inserisco i waypoint e dirigo sul primo. Potrei mettere il
pilota automatico,
Ma perché farlo? Io sono il comandante e il nocchiero. Sento
la barca, faccio le correzioni. Quale sensazione più divina?
Ho il viso di Caterina davanti a me all’improvviso.
I lunghi capelli mossi che fluttuano al vento come vele di
una nave sconosciuta.
Un ricevimento noioso,
come tanti, per la presentazione di un mio libro.
La mia testa era
altrove, piena di memorie del passato.
Ma l’avevo notata
ugualmente.
In mezzo allo
sfolgorio delle altre gemme, lei era un diamante grezzo senza castone.
Mi era passata davanti
e il contrasto con le altre presenze femminili era stridente.
Incedeva tra le ospiti
come se danzasse, ma non sorrideva.
E la cosa mi aveva
incuriosito.
Tra tanti sorrisi
finti e sguardi interessati, lei non guardava nessuno.
Alla fine l’avevo
raggiunta, mentre a metà serata si era diretta verso il guardaroba.
«Se ne va?»
«Si.»
«Posso venire con
lei?»
Aveva riso per la
prima volta. E si era illuminata in volto.
L’avevo trovata
irresistibile e non avevo ancora capito che proprio in quel momento mi aveva
conquistato.
«Ma non è lei l’ospite
d’onore?»
«Si. Ma mi annoio lo
stesso.»
Avevo preso il
cappotto anche io ed ero uscito con lei.
Non mi aveva detto di
no ed avevamo camminato in silenzio per alcuni minuti.
«Come è capitata in
quel posto?»
«Amici di amici.»
«Ma il mio libro non
l’ha letto.»
«Si, invece.»
«Davvero? Si ricorda
l’incipit?»
«Non mi crede?»
«Mi scusi. Ultimamente
sono diffidente con le persone.»
«Specialmente con le
donne.»
«Touché. E lei con gli
uomini.»
Aveva sorriso. Di
nuovo.
«Touché.»
Avevamo cominciato a
parlare così, per mezze frasi. E ci eravamo accorti che il più delle volte
completavamo a vicenda le frasi. C’era una sintonia che non ricordavo da un
pezzo.
Ed entrambi avevamo
evitato accuratamente di fare domande sui rispettivi passati.
Avevamo preso un tassì
ed in un momento di pausa, mentre lei guardava la città attraverso il
finestrino, avevo scoperto che aveva un profilo dolce.
Quando eravamo
arrivati sotto casa sua le avevo fatto la domanda di rito.
«Ci rivediamo?»
«Perché no. Mi chiamo
Caterina.»
«Marcello… oh beh,
quello lo sai.»
«E tu ora sai dove
abito.»
Le diedi il numero di
cellulare. E poi lei sparì nel portone di casa.
Quando raggiunsi
l’albergo e fui nel buio della mia camera, mi accorsi che avevo desiderato per
tutta la serata di baciarla. E non lo avevo fatto. E che qualcos’altro, invece,
era apparentemente scomparso: una pesantezza del cuore che mi aveva afflitto
negli gli ultimi tre anni.
Il bacio era arrivato
alla terza uscita, inaspettato.
Era arrivato al
momento giusto, quando tutte le parole erano state dette, quando tutti gli
sguardi erano stati lanciati e ricevuti.
Caterina aveva delle
labbra piene e dolci come l’alba di un giorno d’estate, un fiore che si era
dischiuso per me. Le avevo accarezzato il viso.
E mentre io mi sentivo
pieno di vita e felice, avevo intravisto nel suo sorriso un’ombra di tristezza.
Ho messo il pilota automatico. Il mare è pieno di onde
piccole, con le creste spazzate dal vento.
Da bolina ora il vento è al traverso e la barca è inclinata
ancora di più.
Non c’è modo di prepararsi un pasto caldo e consumo un
panino che mi sono preparato questa mattina. E soprattutto bevo.
Fa caldo ed il pericolo è la disidratazione.
Bevo a piccoli sorsi, senza fretta.
Il pozzetto è scoperto ed io non ho più ne la giovinezza ne
i capelli di una volta. Mi sono rasato il capo completamente ieri, dal
barbiere. Ed ora indosso un cappellino in microfibra ben serrato in testa.
Tra poco il vento si porterà al lasco e poi a poppa. E dovrò
decidere se montare lo spinnaker oppure no. Se il vento sarà troppo forte mi
risparmierò la fatica.
Windflower è
felice. Non l’ho mai sentita vibrare in questo modo.
Mi ricorda quei pesci del Pacifico che appaiono
all’improvviso davanti alle navi, saltando a frotte fuori dall’acqua e poi
tuffandosi rumorosamente.
Ed altrettanto all’improvviso scompaiono, lasciando il mare
deserto ed ostile.
Prendo il binocolo e scruto l'orizzonte. Sono quasi all’altezza
del corridoio dove passa il traffico mercantile. Io sono un guscio di
noce nell’immensità azzurra. Loro sono colossi di metallo e mi passerebbero
sopra senza nemmeno rallentare. Od accorgersene.
C’è stato un tempo in cui non me ne sarebbe importato
niente.
Ora no. Ora c’è Caterina. E devo raggiungerla entro domani.
Improvvisamente la barca vibra e si inclina paurosamente.
Compenso con il timone e identifico il problema.
Il winch che controlla la posizione della randa si è messo
in moto ed ha cazzato la cima. Da solo.
Se hai il vento al traverso è proprio la cosa da non fare.
Per i non acquatici: se hai la mano di Dio che preme sulla tua vela dal lato,
tirare la vela verso il centro è una cosa idiota, a meno che non tu non voglia scuffiare di
brutto, cioè ribaltarti.
Ora sono di bolina e
la posizione della randa è giusta. Solo la direzione è di una ventina di gradi
sbagliata. Sto puntando verso la Corsica invece che verso la Sardegna.
Mi rivolgo alla barca.
«Che cazzo ti piglia? Eh? Perché? Sei stata sempre una buona
barca, una amica fedele. Perché?»
Il timone è diventato inerte. Risponde, ma Windflower è
diventata solo fibra di vetro e legno. Materia.
Metto il pilota automatico senza collegarlo al Raymarine.
Vado alla scatola di derivazione del winch e lo apro.
Non c’è nemmeno il più piccolo problema.
Scendo in cabina e controllo il fusibile. A posto.
Poi una ispirazione.
Torno al timone e filo la cima della randa azionando il
pulsante.
Ora funziona.
Riprendo la rotta.
Ma Windflower non
parla più con me.
Ora è solo una barca.
Ed ho perso almeno un quarto d’ora sul ruolino di marcia.
Ce la posso ancora fare.
Ma non posso fare a meno di domandarmi cosa stia succedendo.
«Non riesci nemmeno a
dirmi che mi ami.»
La frase di Caterina è
uno stiletto.
Siamo nudi, nel letto,
abbiamo appena finito di fare all’amore.
Mi sono perso in lei
per l’ennesima volta.
Non so spiegarmi come
funziona.
Ogni volta che arrivo da
Roma e la vedo mi accendo.
È desiderio. E
qualcos’altro di più profondo.
Che mi rifiuto di
toccare.
Perché quella parte di
me ancora gronda sangue.
Vorrei che facesse
tutto lei, che immergesse le mani in quel liquido caldo, che rattoppasse le ferite
come una Mary Poppins dell’amore.
Lei ha le sue di
ferite.
E giuro su quanto ho
di più caro che se fosse necessario morire per guarirla lo farei.
Ma non riesco a dirle
quelle due parole maledette.
«Lo sai che tengo a
te. E ti voglio bene.»
«Ti voglio bene.
L’amore dei tiepidi.»
Mi si fa vicina. È
talmente bella che mi toglie il fiato.
Le mani delicate mi
accarezzano il viso.
«Cosa è che ti
impedisce di dire quello che provi?»
«Che cosa lo impedisce
a te, Cate? Tu cosa provi per me?»
Mi prende la mano e se
la mette tra i seni.
«Lo senti come batte,
Marcello? Per te. Cosa è questo?»
La A-parola non riesco
nemmeno a pronunciarla anche se è un marchio di fuoco nella mia mente.
«Ora ti alzi e te ne
vai?» mi domanda mentre si stringe ancora la mia mano sulla seta della sua
pelle, proprio in quel punto così tenero.
«Non l’ho mai fatto. E
non comincerò ora. Non con te.»
«Ma non riesci a
dirlo. Allora te lo dico io. Mi sono innamorata. E tu sei uno stronzo.»
Si alza e entra in
bagno. Sento che apre la doccia.
E so che ha ragione.
Sono uno stronzo.
Perché non riesco a
dire a lei quella cosa che ho detto a poche altre.
Perché ho il dubbio
che nemmeno lei se lo meriti.
Perché ho la certezza
che se glielo dico gli apparterrò.
E che il mio cuore,
che batte forte come il suo, si coprirà ancora una volta di cicatrici.
La paura è la padrona
di questo tempo. Non l’amore.
Il tramonto è infuocato. Ora inizia la vera ordalìa.
Ho bevuto talmente tanto che ho la vescica gonfia.
Ma non voglio rallentare.
Non ho incontrato bonaccia fino ad ora.
Ed ho recuperato il quarto d’ora perso.
Il vento è al traverso, forte.
Non c’è bisogno di spinnaker. Una faticaccia in meno.
Non me la sento di rischiare.
La barca fila che è una bellezza. Ma il dialogo è
ancora interrotto.
Mi porto sottovento, calo la zip
e mi libero reggendomi ad una delle sartie dell’albero maestro.
Torno in cambusa, mi sciacquo le mani e ci passo del limone
fresco sopra. Ora odorano di terra e di agrumi. Sono lisce e pulite.
Amo questi odori. Sono la vita.
Mi ci sono attaccato nei momenti peggiori, quando non avevo
più nulla.
Odori semplici, come il caffè in polvere appena aperto nella
confezione. I rametti di rosmarino appena staccati dalla pianta. Le foglie di
basilico appena colte. I limoni di Sicilia e di Amalfi passati sulla pelle.
L’immagine di una pelle liscia, profumata, di una pancia
piatta, di seni che non hanno bisogno di reggiseno che finiscono con dei capezzoli
grossi come fragole mature mi si para innanzi.
Scoppio a piangere silenziosamente.
Senza freni e senza ritegno.
Quell’odore… quel profumo… quella fragranza.
Non so che collegamento ci sia ancora con quello che sta
accadendo, ma succede che nel buio che c’è fuori si sia accesa una luce dentro.
Qualcosa sepolto da tanto tempo.
E che ha a che fare con me.
Ricaccio via l’immagine, perchè è insopportabile.
Asciugo le lacrime e mi ritrovo irritato con me stesso.
Penso a Caterina. E spero che mi sia passato tutto per
quando arriverò.
«Vado in Sardegna. Vieni
con me?»
«Ho ancora del lavoro
da fare, Cate. Ma ti raggiungo.»
Scuote la testa ed i
capelli mossi fluttuano nell’aria.
«Hai sempre da fare.»
«Mi posso liberare, ma
non prima del 7 agosto. Cancello degli eventi. Ma il 5 devo essere a Milano.
L’editore…»
«Non me ne frega
niente dell’editore.»
Poi riassume
quell’aria enigmatica e dolce che mi ha conquistato sin dalla prima volta.
«Quando puoi partire?»
«Il sette. Te l’ho
detto.»
L’abbraccio. Siamo
sulla lama di un rasoio. Da una parte c’è la fine di tutto.
Dall’altra un nuovo
inizio.
«Sai che facciamo?
Prendo la barca. Invece di girare in auto per campeggi e resort, ti raggiungo e
ci facciamo il giro della Sardegna. Ci scegliamo ogni sera un porto diverso o
una caletta diversa. Solo noi due. Cucino io per te. Pesce fresco ogni sera.»
«Solo noi due?»
Mi sorride in un modo
tale che illuminerebbe qualsiasi cosa da qui ad Alfa Centauri.
Farei qualsiasi cosa
per quella dolcezza. Perché quella luce che ha nello sguardodurasse per sempre.
«Solo noi due.»
«Quando arrivi?» ora
la domanda è cambiata.
«L’otto mattina.»
Quello che mi dice mi
gela. E non so perché al momento. Lo capirò solo molto più tardi.
«E sia. Ti aspetto a
mezzogiorno. Conosci piazza Jenne? C’è un bar proprio a lato. L’unico che serve
hefe. Ti aspetto lì. Se per mezzogiorno e mezzo non ti vedo, dimenticati che
esisto.»
Notte.
Ora sto incrociando la rotta dei traghetti che arrivano da
Napoli e sono diretti a Cagliari.
Ne sto osservando uno per capire che parte tenere o se
attraversare la rotta e seguirne una parallela quando le mie luci di navigazione si
spengono.
E finisce il vento al gran lasco con le mure a dritta.
Non riesco a crederci.
Così, senza alcuna ragione.
Mi viene in mente un poema di Coleridge studiato al liceo: the Ballad of the Ancient Mariner.
Un marinaio uccide un albatross, lo spirito della natura. E
il bastimento su cui naviga cade preda di una bonaccia anomala. E per espiare
Dio lo condanna a vagare per sempre, immortale, ed a raccontare la sua storia,
come monito per gli Uomini:
Chiusi
le palpebre, e le mantenni chiuse;
e le pupille battevano come polsi;
perché il mare ed il cielo, il cielo ed il mare,
pesavano opprimenti sui miei stanchi occhi;
e ai miei piedi stavano i morti.
e le pupille battevano come polsi;
perché il mare ed il cielo, il cielo ed il mare,
pesavano opprimenti sui miei stanchi occhi;
e ai miei piedi stavano i morti.
Le luci del traghetto si avvicinano.
Prendo le torce d’emergenza, monto i filtri, rosso a
sinistra, verde a dritta, e le fisso ai lati della barca. Le accendo.
Almeno questo problema è risolto.
Provo ad accendere il motore.
Morto anche lui.
Ho perso Caterina. Non arriverò mai in tempo.
Mi aspetterà a piazza Jenne. Ma io non arriverò.
E se il traghetto, che ormai comincia ad essere una sagoma
piena di luci nella notte, mi risparmia non ci sarà mai porto dove approdare,
se non quello da cui sono partito.
Mi preparo un razzo di segnalazione, almeno dal traghetto
sapranno che sono qui. E mi eviteranno.
Sto per premere il grilletto. Ma mi trattengo.
Sono stanco. Sono arrabbiato. Sono triste.
Mi sento tradito anche da Windflower.
La venderò non appena metterò piede a terra.
Se ci metterò ancora piede.
«Vaffanculo» mormoro lentamente.
Compito le parole a partire dalla “V”.
Resto inerte.
E guardo il traghetto che mi evita, miracolosamente, di una
cinquantina di metri.
La massa scura passa frusciando a prua, solleva baffi
d’acqua ed onde.
Mi appoggio al timone.
Ho sonno. Ho tanto sonno.
Lei è lì. Piccola e
fragile.
Enigmatica, che mi
guarda dal letto.
Completamente nuda.
Lei ha quella bellezza
segreta che ho sempre cercato.
Siamo sfiniti e
appagati per quanto l’abbiamo fatto.
Ma non riesco a
staccarle le mani di dosso.
Il profumo della
pelle.
Liscia sotto le mie
mani.
Si fa toccare ed
accarezzare ovunque io voglia.
Ha i fianchi dolci
come quelli di uno strumento musicale.
Chiudo gli occhi e
continuo ad accarezzarla.
E l’ho fatto talmente
a lungo che ho imparato come è fatta a memoria.
Lei è parte di me.
«Vuoi rivedermi?» le
domando.
«Non lo so.»
La risposta mi gela.
Da «Amore» sussurrato
nell’impeto del sesso a quel «Non lo so» che mi scombussola.
Non so come prenderlo.
Io l’ho ripetuta
assieme a lei quella parola.
A.M.O.R.E.
Quando eravamo una
cosa sola, al punto di non sapere dove finivo io e dove iniziava lei.
Sembra una frase da
cioccolatino.
Ma è così. Ed è sempre
stato così per me quando faccio all’amore con una donna.
Quel «non lo so» sembra
sospeso ed evaporato quando ci salutiamo alla stazione.
Invece ritorna.
Lei, la mia piccola bellezza segreta, non l'ho mai
più vista.
Perché dopo avermi
chiamato amore, avermi respirato, essersi fatta adorare, ha deciso che io non
sono abbastanza. Che era tutto finito. Che quelle parole erano il centro tavola
con i fiori finti di un banchetto romantico dove il sentimento, però, quello
vero, era bandito.
Da parte sua.
Perché io mi ero
innamorato.
Lei non lo saprà mai.
Perché non lo ha meritato. E non credo, in fondo, che le importi.
Ma io lo so. E lo
tengo per me, mentre vedo il mondo attorno andare a rotoli, pezzo dopo pezzo.
Mi sveglio boccheggiando.
Ho dormito. Sono un pazzo su una barca, persa nella notte del
Mediterraneo.
Ho ancora le immagini del sogno nei miei occhi.
La sua voce. Le sue piccole forme.
E la tremenda consapevolezza di sapere cosa mi trattiene.
So cosa impedisce alla Windflower di parlarmi.
Me stesso.
Come abbia fatto a reprimere i ricordi non lo so. Ma la
mente umana è meravigliosa e perversa.
Affiora un ricordo netto: la sua piccola figura con un abito
elegante, comprato apposta per il nostro incontro, seduta accanto a me. A
piazza Jenne. Mentre stiamo cenando.
Il destino ed un’altra donna mi hanno preso per il collo e
mi hanno riportato li.
So che è una gestalt che è rimasta aperta. Da li gocciola il
sangue.
Va richiusa. Ora.
La mia anima è esangue e non può permettersi altre
emorragie.
La potenza del mio inconscio è stata talmente forte da
essersi trasmessa alla barca.
Tutti i difetti occulti e nascosti si stanno manifestando
uno ad uno.
Perché quella parte che noi non governiamo mi sussurra come
un demone che se arriverò in tempo, quello che sentivo per la piccola figura
svanirà. Non sarà mai esistito.
Mi vengono in mente lei e Caterina ad un tempo.
Ed un dettaglio che le differenzia.
Il modo di baciare.
Caterina è velluto. Si apre quando ti bacia. Perché ti si
offre completamente. Baciarla è una esperienza completa e non solo una parte.
L’altra, invece, quando bacia è dolce. Ma con riserva.
Bacia come una bambina. A labbra strette. Come se avesse paura. O con le
infinite riserve di chi pur dandosi non si concede mai veramente.
Sta a me.
E so che il mio inconscio mente.
Come il Vecchio Marinaio della ballata di Coleridge scelgo
l’amore.
Lo mormoro come in una preghiera.
«Cate… ti amo…. Gesù Cristo… ti amo… »
La piccola figura non svanisce, come avevo temuto.
Ma si ridimensiona. Trova finalmente il suo posto.
So che c’è. E che non se ne andrà mai.
Come tutte le altre che ho amato.
Come tutte le altre che ho amato.
Ma il trono nel mio cuore ora è vuoto ed aspetta.
«Cate… ti amo… »
Sento la barca vibrare.
E tutti i pensieri, tristi e dolci, spariscono.
All’improvviso le luci di navigazione che si erano spente si
riaccendono.
Le vele, fino a quel momento cenci simili ad un sudario,
sbattono lievi come ali di un gabbiano.
Io odoro il vento
che scorre sul mare. Non mi aspetta lì dove sono ora. Devo spostarmi di un paio di chilometri
più a sud.
Voglio arrivare da Cate e dirle quello che fino ad oggi non
sono stato capace di dire.
A costo di remarli, quei due chilometri, per prendere il
vento buono che mi attende.
Prima di fare qualsiasi cosa premo il bottone di avviamento
del Volvo.
E si mette in moto subito.
Canto come un pazzo, ebbro di speranza:
There
used to be a graying tower alone on the sea.
You became the light on the dark side of me.
Love remained a drug that's the high and not the pill.
But did you know,
That when it snows,
My eyes become large
And the light that you shine can be seen.
Baby, I compare you to a kiss from a rose on the gray.
Ooh, the more I get of you, the stranger it feels, yeah.
And now that your rose is in bloom.
A light hits the gloom
On the gray.
You became the light on the dark side of me.
Love remained a drug that's the high and not the pill.
But did you know,
That when it snows,
My eyes become large
And the light that you shine can be seen.
Baby, I compare you to a kiss from a rose on the gray.
Ooh, the more I get of you, the stranger it feels, yeah.
And now that your rose is in bloom.
A light hits the gloom
On the gray.
Le vele si gonfiano. Spengo il motore e punto l’ultimo
waypoint sul Raymarine.
Quando giro la ruota del timone per prendere la rotta, Windflower risponde.
Lei non era mai stata il problema.
Ero io a non parlarle.
E quando non si parla con chi si ama, non si può pretendere
risposta.
La stanchezza c’è, ma è diventata improvvisamente una cosa
gestibile.
Addento una barretta con entusiasmo.
Guardo la velocità sul navigatore e non riesco a credere ai miei
occhi.
Il potente traverso mi sta portando diritto verso Cagliari.
La spiaggia del Poetto si profila nella luce di mezzogiorno.
Il sole è sopra di me, ma il profilo della costa sarda è tutto un profondersi
di grigi, di marroni ma avaro di verdi.
Il mare non più nero, ma ha ripreso il colore usuale e
rassicurante: blu profondo.
All’improvviso un guizzo ad una cinquantina di metri di
prua.
Un delfino.
Poi un altro.
Sono una coppia.
Li seguo.
Mi indicano la strada.
E quando sono sicuri che io l’abbia capito, in due tuffi e
due capriole spariscono a dritta.
Vedo in lontananza un traghetto che sta imboccando
lentamente l’entrata del porto.
Sono all’altezza di Calamosca, a circa tre chilometri
dall’entrata del porto di Cagliari, quando ammaino le vele ed accendo il Volvo.
Ho appena il tempo di raccogliere le vele e legarle.
Poi devo governare e rallentare.
Non ci sono barche in uscita. Mi dirigo a dritta, verso il
porto turistico.
Mezzogiorno ed un quarto.
E finalmente attracco.
Ci sono diversi gestori degli attracchi al molo. Ma questo
per fortuna lo conosco.
Efisio mi saluta.
«Dottore!» fa con il suo forte accento sardo. Amo
quell’accento, come amo questa terra dura e forte, dove le mollezze cittadine
sono un fardello inutile da lasciare sul continente.
Qui conta la gentilezza e l’onore. L’educazione ed il
rispetto.
«Buongiorno Efisio» grido agitando la mano.
«Dammi un approdo subito!»
«Ci penso io dottore!» mi fa prendendo una gomena che gli ho
lanciato al volo.
«Efisio, ti pago un extra se mi sistemi tu la barca. Ho una
cosa urgente da fare. Prima che sia troppo tardi.»
Si mette la mano sul cuore.
«Niente voglio, dottore. Io faccio le cose. O non le faccio.
E per lei le faccio volentieri.»
Salta sulla coperta della barca direttamente dal molo.
«Ci pensi tu?»
«Ci penso io. Vada.»
Poi guarda dentro la cabina e sgrana gli occhi.
«Da solo?»
Annuisco.
«Si.»
Lo sguardo che mi rivolge è, ad un tempo, di disapprovazione
e di ammirazione.
«Doveva essere urgente davvero.»
«No. Era vitale. La barca ora è nelle tue mani.»
«Quando torna?»
«Di sicuro so che sarò di nuovo al porto questa sera.»
«Gli mando il messaggio sul cellulare con il posto barca. Se
non ci sono io c’è mio fratello.»
Conosco entrambi. Se dicono una cosa la fanno.
Salto sul molo e cammino.
Volo.
Cammino nel caldo afoso di Cagliari lungo via Diaz. Poi
piego a destra, lungo viale Regina Margherita.
È leggermente in salita ma a me sembra di percorrere
l’ultimo tratto per arrivare in cima all’Everest.
Supero Largo Carlo Felice, con la statua del re.
Piazza Jenne. Finalmente.
Il tendoni, i tavolini. E la scritta Weiss Bier solo su uno di essi.
Non è più un’immagine reale su una sbiadita di un passato
che continuava a bussare alla mia porta.
È l’ora e l’adesso.
E Caterina è li.
Ci vediamo contemporaneamente.
Si porta la mano alla bocca, come se dovesse trattenere un
grido.
Si alza e si muove, con quel suo incedere soave.
Non parliamo nemmeno.
Mi prende la testa e preme le sue labbra morbide sulle mie.
Un bacio fatto di tanti baci.
Poi mi guarda. E capisce senza che ci siamo detti nemmeno
una parola.
«Ti amo, Cate…» le sussurro.
Glielo dovevo. Lei me lo ha detto tempo fa.
«Lo so» mi risponde mentre mi prende per mano, felice
come una bambina «Lo vedo. Ora lo vedo.»
Gli racconterò dopo tutto.
Della traversata, della notte insonne, di quello che ho scoperto.
Ora Piazza Jenne mi appartiene di nuovo.
Non ci sarà più alcuna esitazione.
Non ci saranno cose non dette.
Non ci saranno tempi interrotti e parole senza significato.
Al contrario dell’Ancient Mariner, il mio viaggio di
penitente è finito.
I fantasmi di un passato dolce e troppo breve mi hanno
abbandonato.
Ed invece dei serpenti marini e degli spiriti angelici, a
colmarmi il cuore c’è una voce gentile e mani affettuose.
Tutto quello di cui ho bisogno è qui e ora.
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