Blog dedicato ai libri, alle riflessioni, alle curiosità di Paul J. Horten, scrittore, fotografo, giornalista, lettore, testimone. Se volete essere sempre aggiornati sui contenuti di questo blog, mettete nella lista dei vostri. bookmark questo URL.
lunedì 30 aprile 2018
ANTICIPAZIONE: Un capitolo del nuovo libro "GIORNO DOPO GIORNO"
Il mio nuovo romanzo GIORNO DOPO GIORNO è in uscita il 15 maggio 2018.
In questa anticipazione, offro ai miei lettori un regalo: un capitolo del libro in anteprima assoluta.
Buona lettura
Paul J. Horten.
Verso Tan Son Nhut
Se qualcuno pensa sia più rassicurante attraversare una città in guerra a bordo di un mezzo corazzato si sbaglia di grosso.
Un APC M113 non è altro che una scatola in spessa lega di alluminio mossa dal motore diesel di un’auto di grossa cilindrata a cui hanno aggiunto dei cingoli ed armata con una calibro .50. Il vano di carico posteriore può accogliere una squadra di fanteria. E ne esistono, in alcuni reparti, anche nella versione ambulanza.
Non ha finestrature di alcun genere, a parte il portellone superiore e la rampa di carico posteriore.
Per cui a parte il capo carro e il conducente, che hanno delle botole individuali dotate di iposcopi, chi è dentro non vede niente.
Ed è esattamente la situazione in cui mi trovo ora. Per farci posto due soldati dell’ARVN[1] si sono seduti sul pavimento. L’unità è una delle migliori: sono Ranger, addestrati da gente come John Thorne.
Robert Di Carlo si trova in un altro APC, in testa al convoglio. Il comandante dell’unità usa l’esperienza del tenente della 101° per arrivare incolume fino all’aeroporto dove siamo diretti.
Più ci addentriamo nelle vie di Saigon, più il rumore dei combattimenti si fa netto.
Dentro il vano di carico dell’APC dove sono ora lo sento chiaramente. Non potendo osservare all’esterno non so nemmeno dove siamo e perchè a volte ci fermiamo. Non capisco il vietnamita, per cui non riesco ad afferrare brani di conversazione che potrebbero essermi utili per sapere in che situazione ci troviamo.
È buio pesto. L’unico conforto è avere Jane accanto a me.
Ci siamo fermati e ripartiti già un paio di volte, senza che sia successo nulla di preoccupante. Da qui dentro Saigon sembra un infinito dedalo di curve e contro curve.
Calcolo che è già mezz’ora che siamo in viaggio. E non mi ricordo quanto disti la base aerea dall’ospedale. In tempi normali, con il traffico caotico della città e senza qualcuno che ti spara addosso, non è un tragitto così lungo.
Guardo il mio Hamilton da polso e le lancette fosforescenti indicano le quattro e quaranta del mattino.
Poi accadono diverse cose e tutte assieme.
Sento urlare in vietnamita, il mio mezzo inchioda, mandandomi ad urtare qualcosa con la spalla, la calibro .50 apre il fuoco, con la sua cadenza lenta e poderosa, e si sentono gli impatti dei proiettili sulla corazzatura.
Punture di spillo rabbiose.
Mi turo le orecchie con le mani, mentre la rampa posteriore si apre.
All’esterno non è buio: la facciata di un palazzo sta bruciando. Il chiarore infernale illumina la strada e fa risaltare le silhouette dei soldati ARVN che si precipitano fuori. Il comandante della squadra si rivolge a noi, prima di uscire.
«Không di chuyển từ đây!»
Che suppongo significhi più o meno Restate lì, donne!.
Passano i minuti e la sparatoria aumenta di intensità.
Comincio a non sopportare più di restare in quel cubicolo. Scopro una forma nuova di coraggio: la paura di venire uccisa senza poter vedere da che parte arriva il colpo.
«Io vado a dare un’occhiata» dico con voce calma a Jane.
«Tu sei matta. Ti puzza la vita, ragazzina? Là fuori sparano!»
«Non resisto un secondo di più qua dentro al buio.»
Non aspetto la risposta e cautamente metto la testa fuori dell’APC.
Lo spettacolo è fantasmagorico.
Tutte le calibro .50 stanno facendo fuoco contro un palazzo in mezzo ad una biforcazione.
L’incendio fornisce l’illuminazione necessaria per muoversi senza troppi problemi. E diventare facilmente un bersaglio.
I traccianti danno un’idea quasi fiabesca della direzione di tiro nell’oscurità.
Se non fosse che ad ogni tracciante corrispondono delle pallottole in cerca di vittime, si potrebbe pensare ad una maniera, altrettanto colorata e vivace, di celebrare il Capodanno Lunare.
Poi noto un corpo a terra.
Uno dei soldati ARVN è stato colpito.
Mi guardo rapidamente attorno. Non vedo sollevarsi da terra le classiche nuvolette dei colpi in arrivo.
Il corpo è sul marciapiede. Ha abbandonato il fucile e l’elmetto è rotolato via.
Le mani premono sullo stomaco e si lamenta. È ancora vivo.
Non penso. Schizzo via correndo ed attraverso la strada.
È un ragazzo giovane e magro.
La prima cosa da fare è tirarlo via di lì.
Lo prendo per il colletto della camicia, con forza, e comincio a trascinarlo.
Faccio sì e no tre o quattro passi in quel modo, non velocemente come vorrei, quando sento il ciak! di una pallottola che solca l’aria a qualche metro a me.
Mi stanno sparando addosso.
Non demordo e tiro come un’ossessa il corpo.
«Andiamo! Andiamo!» urlo per farmi coraggio.
Un’ombra mi appare vicino e afferra anche lei il corpo. È Jane che è uscita allo scoperto per aiutarmi.
In quel modo, in una manciata di secondi, portiamo il soldato dietro l’APC, al riparo.
«Brutta ferita allo stomaco. Troviamo il buco» dice la mia amica passando una mano sul ventre. La ritira intrisa di sangue.
Mi infilo i guanti in lattice e do uno schiaffetto al soldato.
«Ehi.. Ehi… mi senti? Non svenire, non svenire, altrimenti niente morfina» gli dico.
Il viso è contratto in una smorfia di dolore.
Prendo le forbici e taglio camicia e maglietta. Devo trovare la ferita.
Jane gli toglie l’equipaggiamento e, mano a mano che taglio, anche gli indumenti.
«Trovato. Bendaggio compressivo.»
Jane, che si è infilata i guanti anche lei, lo toglie dalla confezione sterile e lo applica. Va bendato con una fascia, altrimenti non serve a niente perchè si stacca.
«L’altro buco ora.»
«Se il proiettile è uscito…»
«É uscito. Gli hanno sparato con un AK o con un fucile più potente. Un cecchino» rispondo.
Come se ci avessero udite, una serie di schiocchi rabbiosi riempie l’aria a poca distanza da noi.
Non ho tempo di avere paura. Sento solo l’urgenza di curare questo giovane ragazzo, la cui vita mi sta letteralmente sfuggendo tra le dita.
Il capo carro dell’APC che ci trasporta esce sulla rampa e ci guarda.
«Ferito grave?» domanda in un inglese stentato.
«Sì. Avete un mezzo per l’evacuazione?» esclamo concitata.
Penso al fatto che da dove veniamo c’è ogni ben di dio per salvarlo ed invece dobbiamo agire in mezzo ad una strada sudicia e pericolosa.
«Non capito…»
«Ospedale! Va portato in ospedale subito!» dico più lentamente.
«Ospedale. Chiamo ambulanza…» risponde.
Poi si ferma e ci guarda, mentre rigiriamo il corpo di lato per vedere se c’è il foro di uscita.
«Grazie. Grazie tanto.»
In quel momento una raffica rabbiosa frusta l’asfalto a tre metri dall’APC.
«Io ora però rompe culo a figlio di puttana vietcong…» rientra dalla rampa e si affaccia dal portellone della calibro .50. Traziona la grossa maniglia di armamento e apre il fuoco.
Spara salve di raffiche brevi, ma consuma l’intera cassetta contro un punto della facciata di una casa, poco distante da quella che tutti stanno bersagliando.
Poi lo sento parlare nella sua lingua per qualche secondo.
Riappare di nuovo all’uscita della rampa.
«Ora rotto in culo comunista non dà più fastidio. Ambulanza qui tre minuti.»
Jane ha trovato anche il secondo foro e l’ha coperto con un secondo bendaggio compressivo. Cominciamo a bendare l’addome con la garza. Poi preparo una infusione di plasma e gliela infilo in vena.
Il capo carro ARVN è di nuovo al suo posto e parla alla radio.
Nessuno spara più. Vediamo i soldati tornare verso i mezzi.
Un M113 ambulanza arriva rombando e scendono due soldati ARVN con una barella.
La posano in terra e giungono le mani, nel tipico saluto buddista, spiazzandoci.
«Cảm ơn bạn, chị em, cảm ơn bạn, chị em.»
Grazie tante. Grazie tante. L’altra parola non la conosco.
Jane si avvicina ad uno dei barellieri, mentre con l’altro sta caricando il soldato ferito, e mima il gesto di portare una sigaretta alla bocca.
«Non è che avete una sigaretta? Ehi? Sigaretta! Une cigarette, s’il vous plait? Oh cazzo… ma non fuma più nessuno in Vietnam?»
Il capo carro fa ampi gesti.
Rientriamo nell’APC. Quando passiamo accanto al palazzo che ostacolava il nostro cammino, l’incendio ha ricominciato a bruciare con violenza. Posso sentire il calore scaldare le piastre della corazzatura.
Poi torna la notte.
Ad un chilometro dal perimetro di Tan Son Nhut ci fermiamo e Jane ed io veniamo fatte scendere.
Robert ci raggiunge.
Se si guarda il campo di aviazione si notano due cose.
La prima è che le piste non sono illuminate ma si vedono chiaramente elicotteri ed aerei continuare ad operare.
La seconda sono le scie dei traccianti che rigano ovunque il cielo nero.
«I Ranger provano ad assaltare i Viet alle spalle. Noi rimaniamo qui con il plotone di riserva. Non appena riescono ad aprire un varco, andiamo dentro alla velocità della luce. C’è un aereo che ci aspetta. Vengo con voi fino a Da Nang. Lì ci sono elicotteri della mia unità in attesa di del mio arrivo.»
Mentre ci prepariamo ad aspettare a lungo, nessuno immagina che tra noi e l’aeroporto ci sono tre battaglioni di Vietcong che tentano disperatamente di penetrare il perimetro difensivo.
La situazione è disperata al punto che la vigilanza USAF ha chiamato a combattere anche i cuochi. Un battaglione di paracadutisti ARVN che era stato appena imbarcato in alcuni velivoli diretti a Da Nang è stato fatto scendere e schierato a difesa della base.
La marea in pigiama nero viene tenuta a bada per tutta la notte.
Poco dopo il sorgere del sole degli APC vengono a prenderci, ci imbarcano e attraverso una parte della recinzione sfondata entriamo a Tan Son Nhut. I corpi dei Vietcong caduti non sono stati ancora rimossi. I portelloni superiori sono aperti e posso vedere, nella luce livida dell’ultima alba di gennaio 1968, figure contorte in divisa nera che tappezzano il terreno.
Mezz’ora dopo, Jane e Robert ed io siamo in volo su un C130 diretto a Da Nang.

[1] ARVN = Army of the Republic of Vietnam, l’esercito del Vietnam del Sud.
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