Un racconto di montagna visto da un punto di osservazione particolare.
Quello di una donna che cerca disperatamente di raggiungere il corpo del marito, morto sull'Everest. Mi ha toccato particolarmente scriverlo. Spero che commuova voi nel leggerlo.
Quando scendo all’aeroporto di Lukla, in Nepal, Neil mi
guarda.
Neil è alto quasi due metri, ha un barbone fitto fitto e porta gli
occhiali da sole. Non alza mai la voce. Con nessuno.
Nemmeno con l’Americano arrogante che siede vicino a me o il
Britannico (come me) che è al suo secondo tentativo, che sa già tutto e mi siede di fronte.
“Sicura di volerlo fare?”
Non sorrido nemmeno. Temo che quella fessura sul viso si
apra e crei una crepa nella mia determinazione.
“Non lo devi nemmeno chiedere.”
“Non ho ancora capito perché. Non sei una scalatrice.”
Mi metto lo zaino in spalla.
Mi metto lo zaino in spalla.
Mi si piegano le gambe per quanto è pesante.
Ma tutte le volte mi raddrizzo. E vado dove voglio andare.
Neil ha ragione.
Non lo sono. O meglio, non lo ero.
Fino a due anni fa.
“Ciao tesoro”
La voce di mio marito è squillante. Fingo di sorridere, ma è
dall’inizio della settimana che invece ho paura.
Da quando Sam mi ha detto che è tutto pronto e che parte con
il suo amico Philip per l’Everest.
È un dirigente di una azienda software con la passione della
montagna, che non è riuscito a trasmettermi.
Le montagne in Europa le abbiamo fatte tutte. Lui con lo
zaino e gli amici, la cintura piena di moschettoni e di corde, io seduta in
albergo.
Quando ha fatto la parete nord dell’Eiger ero sulla terrazza
dell’hotel.
È da quando è iniziato l’alpinismo sportivo che su quelle
terrazze ci sono dei telescopi da cui si può guardare direttamente chi
arrampica.
Ricordo che mentre Sam era in parete, un signore austriaco mi domandò nel suo inglese dal forte
accento se volessi guardare.
Ed io, stupida, lo feci. Riconobbi Sam immediatamente, per
la sua giacca a vento fucsia.
Abbarbicato su una cengia. Ebbi un attacco di panico, perché
non si muoveva. E quando lo fece mi parve che dovesse cadere da un momento
all’altro.
Mi staccai dal telescopio come se avessi visto Belzebù in
persona, e non ne volli più sapere.
Quando vidi Sam quella sera, di ritorno dalla cima, ero
arrabbiata con lui. Ed al tempo stesso fiera e dolce dentro.
Quando lo guardai in viso aveva gli occhi azzurri che
risplendevano e la barba era illuminata da un sorriso che gli andava da una
orecchia all’altra.
Sam aveva sempre quell'espressione felice quando tornava da una scalata ed aveva
vinto una cima.
Quello sguardo e quel sorriso li conoscevo bene. Perchè li mostrava solo in un’altra occasione.
Quando guardava me.
Sento chiudere la porta e si china a baciarmi. Si sta
facendo crescere la barba da una settimana. Ma quando tocca le mie labbra riesce
ad essere sempre delicato.
O sono io che sono ancora innamorata e quindi l’ispido della
barba nemmeno lo calcolo.
“Ci siamo! Ancora due giorni e si parte!”
È allegro come un bambino. Io sono spaventata a morte,
invece. L’Everest non è come le altre montagne.
Non è né l’Eiger né il Monte Bianco.
È alto il doppio.
“Sono contenta per te” rispondo.
Mi prende in braccio e mi bacia di nuovo. E mi viene
l’istinto di portarmelo in camera da letto e fare in modo di non lasciarlo
andare via. Ho lo stomaco contratto dalla paura.
Non glielo dico, perché spegnerei il suo entusiasmo.
Mi mette a terra e si dirige nell’interrato.
“Vado a preparare l’attrezzatura. Da oggi sono in vacanza!”
In realtà è già tutto pronto. Ma Sam sa che con la montagna
non si scherza. E questo un po’ mi tranquillizza. Non affida nulla al caso.
Nemmeno la preparazione fisica.
Mi sono studiata un po’ la storia delle scalate
sull’Himalaya e mi chiedo perché non abbia cominciato con qualcosa come il Lhotse, di 400 metri più basso. Sarebbe stato lo stesso un
ottomila.
Ma Philip e lui sono due competitivi. Puntano sempre al
massimo.
Durante la notte lo cerco. Lo stringo.
Facciamo all’amore senza fretta, per un bel po’.
Quando vengo lo stringo forte.
E lo sento altrettanto forte dentro di me.
Mi abbraccia e si addormenta coccolandomi. È felice, lo
sento con ogni particella del mio corpo. Io mi metto a piangere, in silenzio. E
mi addormento solo quando sono esausta.
Non era mai successo prima. Perché non era mai successo che
lui partisse senza di me.
Ci svegliamo presto, devo accompagnarlo in aeroporto a
Heathrow, dove ha un appuntamento con Philip. Quando entro in bagno per una
rapida doccia è nudo e si sta lavando i denti.
Ha i segni delle mie unghie sulle spalle.
“Mio Dio, Sam! Mi dispiace io…”
Ride come un matto.
“Ci hai dato dentro, piccola. Come una tigre!”
“Ma ti fa male?”
“Macchè… “
“Mi dispiace ugualmente. Non avevo mai reagito così prima.”
“Sono tutte prime volte, Helen. Come scalare l’Everest.”
Si volta e mi guarda.
Ho i brividi.
“Sarà stupendo farlo. Come essere stato con te questa
notte.”
Annuisco e mi infilo in doccia.
Apro l’acqua e cerco di rilassarmi, mi insapono, mi lavo i
capelli.
Sam mi bussa alla porta della doccia.
“Non doveva essere una cosa al volo? Sono dieci minuti che
stai là sotto…”
Rischia di perdere l’aereo.
“Si hai ragione, scusa.”
Mi sciacquo rapidamente, mi asciugo in un attimo (portavo i capelli corti
in quel periodo) e mi vesto.
Il Volvo Station Wagon è già stato caricato con la roba di
Sam. Io devo solo guidare.
Lui fischietta, poi mette la musica e batte il tempo con le
mani, un pezzo dei Led Zeppelin: Kashmir.
Arriviamo in aeroporto e prendiamo un carrello.
Sono le sei del mattino e non c’è praticamente nessuno.
Mettiamo tutto sul carrello e facciamo il check in.
Lo lascio ai controlli di sicurezza, all’entrata del
terminal.
Ancora un bacio, mentre vedo Philip che lo saluta dall’altra
parte. Lui è già passato.
“Cerca di tornare…” biascico.
Sono presa dallo sforzo di non rovinare tutto per la paura che provo.
“Ma scherzi? Come potrei non tornare dalla mia tigrotta del
sesso!”
Se l’umore fossero metri sopra il livello del mare, Sam
sarebbe già in cima a due Everest uno sopra all’altro.
Mi do della sciocca, perché il suo buonumore comincia ad
essere contagioso.
Poi mi accarezza il viso.
“Ti amo. Ciao. Ci vediamo tra venti giorni.”
“Ti amo…” la frase mi esce strozzata.
Lo vedo con lo zaino in spalla (il resto è andato tutto in
stiva come carico speciale) che si avvia verso i metal detector.
Resto li fino a quanto, con la cintura e le scarpe in mano,
ha passato i controlli e mi saluta.
Le alza in alto, come un trofeo, mentre scuote la testa,
rotea gli occhi e gli addetti alla sicurezza non sanno se ridere o incazzarsi
con lui.
È l’ultima immagine che ho di Sam.
Perché non è mai più tornato da quella spedizione. È morto
sull’Everest assieme a Philip dopo aver raggiunto la cima, durante la discesa.
Non so come ho superato il dolore.
Ho fatto cose pazze.
Assurde.
La casa sembrava vuota.
La notte ed i week end erano i momenti peggiori.
Non sono andata nemmeno al funerale.
Ho messo la scusa che stavo male (non lontana dal vero) ma
mi sono rifiutata di andare ad una cerimonia dove qualcuno metteva una bara
piena di sassi a tre metri sotto l’umida terra di un cimitero obbligandomi a fare finta che quello
fosse l’uomo che amavo.
Che amo ancora.
Che amo ancora.
Ero infuriata e dolorante.
Una sera ero talmente fuori di me che ho dato fuoco
all’attrezzatura da montagna che Sam aveva lasciato in garage. E per poco non ho rischiato di incendiare la casa.
Il lavoro è stato un’ancora.
Uscire, avere orari fissi per obbligarmi a fare qualcosa mi
ha aiutata.
Lavoro a Londra ma abito in campagna.
Prendo un treno che in venti minuti da dove sono, un paesino
sonnacchioso, mi porta alla fermata della Tube. E da li in
ufficio.
Un’ora, intera che uso come posso per leggere o pensare.
Ci sono due strade per arrivare da casa mia alla stazione
del treno. Una passa davanti al cimitero dove è “sepolto” Sam, l’altra invece,
più lunga, per la campagna.
Per mesi ho preso sempre quella più lunga.
All'inizio dell'estate, un anno esatto dopo la tragedia, un
venerdì tornando da lavoro trovo la strada che uso di solito chiusa al traffico.
Ci sono gli addetti alla viabilità con le loro
pettorine.
Mi avvicino e chiedo.
“Mi dispiace signora, ma qui fino a giovedì prossimo non si
passa. Fognatura da riparare.”
“Ma io devo andare a casa!”
“C’è sempre l’altra strada, lei dove abita?”
Gli dico l’indirizzo. Sembra conoscerlo, perché mi domanda
se ad una estremità della mia via c’è un villino stile Tudor con le rose
rampicanti.
C’è naturalmente, e gli dico di si.
“Ma allora perché vuole fare questa strada? L’altra è anche
più breve!”
Lo guardo, ringrazio e torno indietro.
Inutile spiegare a lui. Perché in realtà non voglio spiegare
a me stessa.
Seguo la strada che avrei dovuto fare da sempre, quella più
logica e diretta. E quando passo davanti al cimitero vedo che è ancora aperto.
Rallento.
Ho il cuore in gola.
Poi freno dolcemente.
Guardo il cancello non so quanto tempo. E poi mi ricordo che
sto occupando una carreggiata senza un solo valido motivo.
È come se qualcuno mi avesse messo un guinzaglio al collo
con un laccio lunghissimo. E stesse tirando.
Parcheggio fuori del muro ed entro.
Ricordo vagamente la posizione, ma nonostante questo mi
ritrovo dopo pochi passi davanti alla sua lapide.
Sam Cross. Data di nascita. Data di morte.
Accade rapidamente e non so nemmeno io come.
Mi ritrovo inginocchiata, tremante, che piango e urlo.
“Tu non sei qui! Tu non sei qui!”
Lo insulto. Insulto l’uomo che amo. Se lo avessi davanti a
me lo prenderei a schiaffi.
Invece ho ancora la sua immagine negli occhi con la cintura
e le scarpe in mano, che mi sorride.
“Perché non sei tornato? Bastardo! Perché mi hai lasciata
sola! Perché!”
Scuoto la testa.
“Tu non sei qui… “
Sono esausta. E vorrei essere sotto quei tre metri di terra,
in pace. E cercarlo in quel posto da dove non si torna.
Rimango a bocca aperta, mentre ho il trucco sfatto per le
lacrime, il naso mi cola di mocciolo e fili sottili di saliva mi scendono ai
lati delle labbra e sul mento.
Sono un animale selvaggio e ferito. Ma so che una sola cosa
mi placherà. Solo una.
Mi presento alla palestra di roccia dove andava Sam.
Mi conoscono e l’istruttore mi guarda come se fossi una
pazza.
E non ha tutti i torti.
Perché io, una donna esile, per la quale il massimo
dell’attività fisica è lo jogging per tenere su un culo che giudico ingombrante
e che al minimo accenno di mollezze vuole scendere a tutti i costi, con gli
occhi così cerchiati che sembrano quelli di un panda ed un naso paonazzo da
sembrare appena uscita da un pub dopo una serata di gozzoviglie, sono entrata nel suo ufficio e gli ho appena detto che voglio
scalare l’Everest.
“Helen… li ci va gente allenata. Che sa di montagna. Tu cosa
ne sai?”
“Ci vanno anche i dilettanti. Lo so. Sam aveva pagato una
compagnia che fa queste cose, la Wild
Himalayan.”
“Si sono dilettanti guidati da professionisti. Ma sono
dilettanti che hanno già scalato. Gente in forma e che conosce le tecniche.”
“Le imparerò.”
“Non si imparano in un giorno ci vogliono anni.”
“Le imparerò” ripeto come in un mantra.
“Helen… non può
finire bene. Ti valuteranno. Anche se ti insegno tutto quello che so, e
riuscissi a metterti in forma perfetta per la prossima estate, non è detto che
se li paghi te lo faranno fare.”
Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Mi sento stupida ma non ci posso fare niente.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Mi sento stupida ma non ci posso fare niente.
“Ti prego Mike… ti prego ti prego… voglio andare da Sam…
voglio andare da Sam…”
Gli uomini non sopportano vedere una donna piangere. Se poi
è la vedova di uno dei tuoi migliori amici non hanno speranze.
“Helen ti prego, qui volevamo tutti bene a Sam. È stata una
cosa terribile, lo so, in particolare per te ma…”
“Voglio andare da Sam… Non posso più vedere quella stupida
tomba vuota, ti prego… ti prego…” piagnucolo.
Scuote la testa. Ma sa che non può dirmi di no.
“Va bene. Ma ad una condizione.”
“Quale? Qualsiasi cosa…”
Mike non è uno sciocco e vuole vedere se ho la
determinazione.
“Domani mattina. Dieci chilometri di corsa. Con me.”
Non esito nemmeno un attimo.
“Dove e quando?”
“Ti vengo a prendere io. Alle cinque di mattina.”
Mike è uno stronzo.
E sta tentando di uccidermi.
Almeno questa è l’impressione che ho avuto non appena sono
scesa dall’auto e mi sono resa conto di dove mi aveva condotta.
È estate, ma sulle Breacon Beacons, in Galles, fa un freddo
boia e pioviggina.
Ho visto un documentario della BBC sul parco. È selvaggio,
stupendo ed ha il peggior tempo dell’intera isola britannica, se non si
considerano le Highlands molto più a nord.
È un ambiente talmente selettivo che viene usato dalle forze
speciali del mio Paese per le prove di ammissione.
Mi ha concesso cinque minuti di riscaldamento e poi siamo
partiti.
Lui la lepre, io devo inseguirlo.
Il primo pezzo, due chilometri, è in falso piano, e mi
stronca le gambe.
Il pezzo successivo è in salita e mi riduce i polmoni ad una
massa bruciante di dolore.
Non mi sprona, non mi dice che ce la posso fare.
Mi domanda in continuazione se voglio mollare e tornare
all’auto.
“Io il percorso l’ho fatto un sacco di volte. Anche due
volte di seguito. Posso andare all’auto e venire a prenderti. Che dici?
Torniamo a casa Helen?”
“Vaff… fanc... ulo, M… Mike.”
Mi sento male. Ma continuo zampettando.
Mi concede di fermarmi tutte le volte che voglio. Mi passa
da bere. Mi dice a che chilometro siamo.
Ma mi avverte anche che se faccio un solo passo indietro mi
riporta all’auto e fine della storia.
Al chilometro sei vomito acqua.
“Vuoi tornare indietro?”
“No!”
Caracollo, non è nemmeno una corsa.
Al chilometro sette prendo una storta e mi vengono le lacrime agli occhi
per il dolore.
Continuo a saltellare su un piede solo.
Quando mi dice di sedermi per controllarmi la caviglia gli
urlo di non toccarmi.
“Non fare la stupida. Voglio vedere se te la sei rotta.”
Mi muove il piede, mi tocca la caviglia, mi toglie il
calzino.
Poi dallo zainetto che porta sulle spalle prende il kit di
pronto soccorso e mi fascia la caviglia stretta.
Il dolore diventa sordo.
“Dopo andiamo al pronto soccorso.”
“No!” urlo.
Mike mi guarda ed annuisce lentamente.
“Non lo sforzare. Mancano tre chilometri soltanto. Ce la
puoi fare.”
Annuisco.
Mi rimetto la scarpa e continuo zoppicando. Il dolore è sopportabile.
Mike non mi domanda più se voglio rinunciare.
Mi dice solo quanto manca all’arrivo.
Riconosco l’incrocio che abbiamo passato con l'auto all’arrivo.
Ormai non posso nemmeno correre. Incedo zoppicando.
Ma non mi fermo più.
Vedo l’auto, abbiamo fatto un circuito completo, e dopo un tempo interminabile riesco ad
appoggiare le mani sul tettuccio.
È ora di pranzo e per fare dieci chilometri ci abbiamo messo
quasi quattro ore.
Mike apre l’auto e mi fa mettere seduta sul sedile del
passeggero.
Mi porge la giacca ed i calzoni della tuta e mi aiuta a
metterli.
“Non ce l’ho fatta, vero Mike? Troppo lenta, troppo lenta…”
“Piantala. Non importa quanto tempo ci hai messo. Il punto
era dimostrare un’altra cosa.”
“Cosa?”
“Vuoi andare ancora da Sam?”
“Si. Più di qualsiasi altra cosa.”
“Hai la determinazione. Anche se sarà molto peggio di così.
Credimi. Ma non hai fisico e non hai tecnica.”
“Non mi importa.”
“Va bene. Ti metterò in grado di andare da Sam.”
Sono stati mesi duri. Dal punto di vista fisico e
psicologico.
Dovevo lavorare durante la settimana e la sera e durante i
week end ero sempre alla palestra di roccia.
A volte ero così stanca che dopo la palestra mi mettevo a
dormire senza nemmeno mangiare e mi svegliavo di notte con un buco allo
stomaco.
Ho visto il mio fisico cambiare.
Oltre che bassa di statura non ero tonica per niente.
Corsa tutti i giorni.
Poi gli esercizi alla parete, le trazioni alla sbarra a
casa.
Ora ho le spalle più larghe, le gambe e braccia muscolose,
gli addominali a tartaruga ed un culo da fare invidia ad una ballerina
brasiliana.
C’è anche il corso teorico pratico sulle tecniche di
arrampicata.
Ho scoperto che ho talento per i nodi.
Basta farmelo vedere una volta e lo so rifare subito.
E memorizzo anche come usarlo.
Meno invece i movimenti in parete.
Tendo ad usare troppo le braccia e le mani, mentre sono le
gambe quelle che danno la maggiore spinta.
Poi le trasferte in Austria ed in Italia. In autunno.
Mentre in inverno niente, perché sono una principiante. Solo
trekking per prendere confidenza con zaino e le tecniche di marcia nella neve.
Mi piace maneggiare i moschettoni ed i clogs, dei cosi che si ficcano nella roccia e quando vengono tirati, grazie a degli ingranaggi, si espandono bloccando alla parete l’aggancio per
la corda.
Mi piace molto meno usare chiodi e martello.
In primavera Mike mi ha portata al Matterhorn, gli Italiani
lo chiamano Monte Cervino.
Per certi versi, con la sua punta spigolosa ed il vento che
la sferza creando nuvole a bandiera, rassomiglia all’Everest. Solo che è più
ripido e molto meno alto.
Abbiamo dormito all’Hornlihütte, il rifugio più costoso
della Svizzera, dopo una salita priva di difficoltà dalla funivia che arriva da
Zermatt alla cresta.
Almeno a me è parsa priva di difficoltà, perché a detta di
Mike salgo su come uno stambecco, ora.
Poi, alle tre del mattino, ci siamo svegliati, zaino in
spalla e corde ed abbiamo iniziato la salita.
Lui davanti ed io dietro a seguire.
Ho dovuto pensare ogni mossa: dove mettere la mano, dove
mettere il piede. Una dopo l’altra. In uno sforzo che impegnava la mente al
punto di non rendermi conto che ero sospesa solo aggrappandomi alle punte dei
piedi e delle dita su una parete di roccia quasi verticale.
Quando ho visto sparire Mike, venti metri più in alto, ho
capito che eravamo arrivati.
La cima del Matterhorn è uno spuntone risicato di roccia
sempre coperto di neve.
Se si esclude dallo sguardo quello che hai sotto i piedi,
sembra di volare.
Da una parte c’è la Svizzera, dall’altro l’Italia.
E montagne più basse di quella dove sei a perdita d’occhio,
a parte il massiccio del Monte Bianco verso Sud Ovest.
Per la prima volta ho capito profondamente quello che
provava Sam. E me lo sono sentito vicino come mai era accaduto.
Mike mi ha guardata, mentre tirava fuori un termos pieno di
tè caldo e ha mormorato una frase, perché in montagna, in quei momenti, non
si urla, ma ci si comporta come se si fosse entrati in un tempio
fatto di roccia e di neve.
“Sei quasi pronta.”
Siamo restati sulla cima per dieci minuti, godendoci un
paesaggio ineguagliabile senza scambiarci una parola.
Poi abbiamo iniziato la discesa.
È stato sempre Mike che mi ha accompagnata ad Heathrow per
prendere il volo per Katmandù. Lo stesso che due anni prima aveva preso Sam.
Mi abbraccia forte ed io ricambio.
“Ce la farai. Sei stata incredibile. Hai plasmato te stessa,
corpo e mente. Vedrai, passerai la valutazione al campo base. Conosco Frank
Neil. Se non ti ritiene in grado di farcela ti rimanderà indietro.”
“Spero che non succeda.”
“Se non succede, e non succederà, sai che hai delle
possibilità dalla tua.”
Passo i controlli di sicurezza e mi fanno togliere anche
le scarpe e la cintura.
Dopo il metal detector le prendo. Ed ho un groppo alla gola.
Mi giro. Ho le lacrime agli occhi ma sorrido e faccio la
buffona.
Agito a mo’ di saluto le mie scarpe da ginnastica.
Mike si mette a ridere.
E rido anche io.
Dopo tanto tempo.
Mi fa il segno con il pollice verso l’alto.
Annuisco.
Poi mi metto le scarpe, ricompongo il mio bagaglio profanato
dai controlli e mi dirigo al gate.
Per arrivare dall’aeroporto di Lukla, a 2400 metri, al Campo
base dell’Everest, ad 5364, si va a piedi, con contorno di sherpa e di yak
someggiati che portano il carico. Sono circa quattro giorni di cammino e
servono per acclimatarsi.
Nel tratto finale, lasciato il monastero di Tengboche, c’è il passo di Chukpa Lare, a 4200
metri sul livello del mare. Chi arriva li vede uno stupa e le bandiere colorate che inviano le preghiere al Buddha
tipiche in tutto il Nepal. Lo stupa
ospita un monumento agli scalatori che sono morti affrontando l’Everest.
Quando lo vedo sgrano
gli occhi, e nonostante la fatica chiedo a Neil se possiamo fermarci cinque
minuti.
Frank da l’ordine di fermarci per una sosta.
Mi accompagna al memoriale.
Mi inginocchio davanti alla lastra provata dalle intemperie
e leggo i nomi. C’è anche quello di mio marito.
Passo le mie dita dalle unghie corte e screpolate lungo i
caratteri, mentre sento lo sguardo di Neill come una mano di un angelo posata
sulla mia nuca.
Non è come leggere la lapide nel cimitero in Inghilterra. Qui
Sam è vicino e lo sento.
Ce ne sono tanti di nomi. Più di duecento. Qualcuno è anche
di donna.
Come Francys Arsentiev che riscendendo dalla cima che aveva
conquistato assieme al marito Sergei diventò cieca a causa di un edema agli
occhi e dovette fermarsi. Sergei arrivò
al campo immediatamente sottostante, quota 8200, e si accorse che Francys non
era con lui. Nonostante avesse problemi di respirazione e di ipossia tornò
indietro, a quota 8600, cercando in ogni modo di salvarla. I soccorsi lo
trovarono vivo, il mattino dopo, caduto poco lontano e riuscirono a salvarlo.
Per Francys Arsentiev non ci fu nulla da fare: morì poco dopo che i soccorsi l'avevano raggiunta.
Anche il corpo di Sam è li. Nella neve. A fare compagnia a
quello di Francys Arsentiev e degli altri che non sono mai più tornati.
La dottoressa Meg McMillan è giovane, atletica e mi ha
rivoltata come un calzino.
Mi ha fatta rivestire e chiama Frank Neill.
“Frank per me è okay. Manca la tua valutazione.”
Neill mi si avvicina mentre chiudo la zip della felpa
sintetica.
“Ti voglio spiegare una cosa, Helen. Non ti mentirò. Ti ho
osservata bene mentre venivamo su da Lukla al campo base. Mentalmente sei
forte. Sei determinata. E questo conta il cinquanta per cento. Ma l’altro
cinquanta è come il fisico reagisce nella Zona della Morte. E quello non lo sapremo
fino a che non ci saremo. Lì la forza di volontà vale solo per una cosa.
Andarsene e riscendere sotto gli 8000 metri anche strisciando se le cose si mettono male.”
Ho già sentito quel nome: La Zona della Morte.
Fa venire i brividi già guardando i documentari.
Tra una settimana invece sarò proprio lì.
“So cosa è” rispondo.
“Non c’è niente che possa prepararti a quanto accadrà. O va
o non va. Ho visto gente minuta come te salire e scendere e
farcela. E gente professionale e preparata sputare sangue dai polmoni sulla neve
ed avere gli occhi iniettati di sangue perché i capillari si erano rotti a
causa dell’abbassamento di pressione. Il corpo, al di sopra degli ottomila
metri comincia a morire. Non importa quanto tu sia forte ed allenata. Ed ogni
corpo reagisce in maniera diversa. L’unica maniera è tornare sotto gli
ottomila. Se ti fermi e non ce la fai con le tue forze nessuno ti aiuterà,
perché staranno tutti male come te ed allo stremo delle forze come te. E non si possono
chiamare gli elicotteri, perché a quell’altezza gli elicotteri non volano. Se
ti fermi, sono costretto a lasciarti lì a morire. E non potrò farci niente,
perché dovrò portare in zona di sicurezza chi invece ce la fa ancora. Mi hai
capito?”
Esitò un attimo.
“C’era Sam con me quel giorno. È arrivato sulla cima dell’Everest
con tutta la spedizione . Ho visto poche persone sprizzare felicità come lui. E
dopo poche ore, tornando, spegnersi come una candela immersa
nell’acqua.”
“Stai cercando di farmi cambiare idea, Neil? Perché se è
questo che pensi stai sbagliando di grosso.”
Neil annuisce.
“Okay. I rischi li sai.”
Lo sguardo che gli rivolgo deve essere particolarmente
limpido e determinato.
Perché si rivolge alla McMillan.
“Meg, per me è okay. Può venire con noi.”
La dottoressa si illumina.
“Benvenuta sull’Everest, Helen. Stasera diamo una cena di
benvenuto. Da domani inizia l’acclimantamento. Qui alle ore 5. E poi di nuovo al ritorno, per le visite di controllo.
Mancane una e sei fuori della spedizione. Nessuna eccezione.”
“Non sono una testa calda, dottoressa.”
“Meg andrà bene.”
“Non sono una testa calda, Meg.”
Lei fa spallucce.
“Faccio lo stesso discorso a tutti. Mi piace essere chiara.
Con la condizione fisica qui non si scherza. Se non ti controlli puoi uccidere
te stessa e chi ti è attorno. Perché conosco Frank. Lui ti ha detto che ti
lascia lì a morire se non ce la fai. Ma so che proverà lo stesso a salvarti. Tu
e chiunque altro della spedizione. Rischiando di rimanere ucciso lui stesso.”
“Quanti ne sono morti fino ad ora sotto la direzione di
Neil?”
“Solo due. Tuo marito ed il suo amico. E non ci ha dormito
per diverse notti chiedendosi dove avesse sbagliato. Lo so, perché sono la sua fidanzata.”
Sorrido.
“Ti riporterò Frank. Non ti preoccupare” le dico decisa,
mentre lei mi guarda sorpresa.
Mi sento i polmoni scoppiare.
Ogni passo è un suicidio ed un tormento.
La neve ed il freddo sono insopportabili e mi sembra di
avanzare nuda sulla cresta più alta del mondo.
Mille volte mi sono domandata chi cavolo me lo abbia fatto
fare. E mille uno volte ho messo un piede davanti all’altro ed ho continuato.
… e continuato.
… e continuato.
C’è un punto, sulla cresta, con due corde ad indicare il
passaggio.
Li ci sono i corpi di molti di quelli che non ce l'hanno fatta, in piena vista.
Francys Arsentiev, e gli altri. Ed anche Sam e Philip.
Ma non mi sono fermata ad osservare.
Non ora. Non era il momento. C’era una cordata da
rispettare, non potevo attardare gli altri.
Mi sono attaccata all’ossigeno.
E ad un certo punto la salita è finita.
Come in preda ad un sogno vedo un gruppo di persone alzare
le mani con la piccozza mentre gli vado incontro.
Ed ho capito.
Sono in cima.
Non esiste sulla Terra una montagna più alta di questa.
In un raro momento di grazia, non ci sono ne nuvole ne
vento.
Le ossa della terra fuoriescono e piegano il manto bruno
delle rocce e della neve.
Sono sul tetto del mondo.
Dove è stato Sam.
Mentre ci abbracciamo l’uno con l’altro con le poche forze
che ci sono rimaste, penso a lui, che aveva voluto tanto questa cosa.
Ti amo Sam. Ti amo. Sono qui. Me lo ripeto nella mente.
E sento che mi risponde.
La mia piccola tigrotta è cresciuta. Sei in gamba. Benvenuta
nel mio mondo.
Ma forse è l’ipossia e mi sono immaginata tutto.
Stiamo scendendo, Neil in testa.
Ed abbiamo la vitalità di una fila di zombie.
Odio la discesa più della salita.
L’istinto sarebbe quello di sdraiarsi e lasciarsi andare.
Il risultato sarebbe quello di rimanere lì e morire.
Siamo tutti esausti.
Neil ha detto che sopra gli ottomila si farà una sola breve
sosta.
Sono appena dietro di lui e vedo che si gira sempre più
spesso.
“Neil?”
“Cosa vuoi Helen?”
Fa fatica anche lui a respirare, nonostante l’ossigeno.
Stiamo tutti morendo lentamente.
Un solo sherpa, piuttosto famoso, collezionò il curioso
record di permanenza sulla cima dell’Everest di ben 20 ore.
Ma sono fisici e casi più unici che rari.
Il nostro corpo di semplici europei si sta disfacendo.
“Quando hai intenzione di fare la sosta?”
“Se vuoi anche subito se non ce la fai.”
“Ce la faccio. La possiamo ritardare di mezz’ora?”
Non mi risponde subito.
Poi vedo la maschera antivento incrostata di ghiaccio
voltarsi e fissarmi.
“Tu sei pazza, lo sai?”
“Sono venuta qui per quello. Per Sam. Me lo devi.”
“Non ti devo niente. Ho altre nove vite a cui badare oltre
alla tua ed alla mia” rantola.
“Se le metto in pericolo mi lasci assieme a mio marito. In
un modo o nell’altro resterò assieme a lui.”
“Non avrò un altro alpinista sulla coscienza.”
“Non lo avrai. Ho promesso a Meg di riportarti vivo al campo
base.”
Annuisce.
“Va bene. Ma poi fai solo quello che ti dico io.”
“Farò tutto. Anche se mi dicessi di saltare nel crepaccio
dopo il sarracco.”
Ride.
“Sosta tra mezz’ora. Ora non mi far parlare più.”
Sono passata vicino al cadavere di Francys Arsentiev. E l’ho
guardata. È ancora nella sua tenuta da montagna, i capelli neri non ci sono
quasi più e la pelle gli si è attaccata al cranio, disseccata.
Ho guardato la morte in faccia.
E il sentimento che ho provato è stato di profonda pietà.
Trovare il corpo di Sam è stato facile, grazie alla sua
giacca a vento fucsia. Gli piaceva quel colore perché secondo lui era da donna.
E in quel modo prendeva in giro se stesso e il mondo di machi e superuomini di
cui faceva comunque parte.
Sapeva ridere di se stesso e ridere della vita.
È disteso nella neve come se dormisse, leggermente
rannicchiato.
Il dolore mi acceca gli occhi.
Ma l’abitudine mi ha reso certi gesti automatici.
Guardo l’orologio. Ho cinque minuti esatti.
Mi inginocchio e mi faccio il segno della croce.
Recito un Padre Nostro rapidamente, perché anche Iddio vuole la sua parte di ringraziamenti.
Recito un Padre Nostro rapidamente, perché anche Iddio vuole la sua parte di ringraziamenti.
Poi siamo Sam ed io, da soli.
“Ciao amore mio…” mormoro.
Sfioro la giacca a vento, ma non oso togliere il cappuccio e
vedere come la decomposizione ha ridotto il corpo di chi ho amato.
“Ciao Helen. Sei venuta fin quassù, tu che non volevi salire
nemmeno le scale al centro commerciale.”
“Si. Per te.”
“Hai poco tempo.”
“Lo so. Ma dovevo sapere dove eri, come stavi. La tua tomba
vuota… mi pareva una beffa. Una cosa orribile piangere li sopra.”
“Helen… non è più tempo di piangere. Devi tornare a livello
del mare. E vivere. Non ti voglio vedere più triste.”
“È una parola. Sam. Cristo... Lo sai quanto mi manchi, brutto
bastardo?”
Sam ride.
Od almeno immagino che rida nella mia mente.
Il corpo è ancora li, immobile. Ma la voce la sento bene.
“Manchi anche a me. Ma ci rivedremo, Helen. Un giorno.”
“Quando?”
“Queste domande non si fanno.”
“Queste domande non si fanno.”
“Come faccio senza di te, Sam? Come faccio?”
“Come hai fatto ora. Hai compreso una parte di me che ho
amato profondamente. Scalare le montagne. Lo hai fatto con una profondità con
cui pochi partner di vita lo fanno. L’unica parte che ho amato quasi quanto
te.”
“Quasi? Io… io credevo che…”
“Che la amassi più di te? No. Tu sei stata la mia ragione di
vita. Anche negli ultimi momenti prima di morire. Quando sono arrivato in
cima, dove sei stata anche tu qualche ora fa, sei stata il mio pensiero
costante. Avrei voluto così tanto tornare a casa e darti la gioia che avevo
provato. Come avevo fatto tutte le altre volte quando mi aspettavi a valle. Non
ci sono riuscito. Mi dispiace, Helen. Ma ora sai.”
“Se non fossi già morto ti ammazzerei. Andartene via così
all’improvviso dalla mia vita…”
Mi metto a ridere sommessamente.
E ride pure Sam.
E capisco, in quel momento, che devo fare quello in cui Sam non è riuscito. Tornare a casa. Viva. Solo così il
cerchio sarà completo.
Solo così la sua morte avrà un senso.
Ed avrò portato con me molto di più di un suo ricordo.
Guardo l’orologio.
“Tempo scaduto Sam. Ti devo lasciare.”
“Ma che dici, piccola? Noi ci incontreremo. Ma molto, molto
in là nel tempo. Che ne dici di mettere al mondo un frugolo?”
“Ma sei matto? E con chi?”
“Arriverà. Ma scegli bene. Come me ce ne sono pochi. Rendimi
padre.”
La voce esita.
“Torna alla vita, piccola. Hai sofferto abbastanza. Se sarai
di nuovo felice non avere paura di dimenticarmi. Non avverrà mai. Avrò il mio
posto. Ma per l’amor di Dio… torna a vivere! Me lo prometti?”
“Si… va bene. Te lo prometto.”
“Ora vai. Alrimenti troverai Frank Neil parecchio
incazzato.”
All’improvviso c’è solo silenzio e vento.
Ed il fruscio della neve che si ammucchia sul corpo di Sam.
Un’ultima carezza, sfiorando la stoffa e poi, con uno sforzo immane, mi sollevo in
piedi.
Non so cosa sia successo, ma mi sento leggera, piena di
forze.
Raggiungo il resto della spedizione e mi aggancio di nuovo
alla cordata.
“Tutto bene? Trovato Sam?” mi domanda Neil.
“Si. Mai stata meglio. Ti saluta.”
La maschera antivento mi fissa e sono certa che se gliela
togliessi troverei uno sguardo allibito e divertito ad un tempo.
“Non ti sei riposata. Ma non rallenterò per te fino a che
non saremo al campo al di sotto degli ottomila.”
“Vai tranquillo. Devo sempre riportarti da Meg per domani
sera.”
Riprendiamo a marciare.
Ed io, che sono stata nel mondo dei morti, sono l’unica che
non rassomiglia nell’andatura ad uno zombie.
Sono rientrata in Inghilterra da venti giorni. E per la
prima volta ho portato dei fiori sulla tomba di mio marito.
Ora quella tomba vuota non mi sembra più una beffa crudele.
Perché so dove è chi ho amato.
E posso sopportarne la vista.
Il dolore sta scemando.
I ricordi cominciano a ritornarmi dolci.
E mi dicono quanto bella e ricca sia stata la vita che ho
vissuto.
La BBC ha saputo della mia storia da Frank Neil e mi ha
voluta intervistare.
Non sono una celebrità e non mi interessa.
Da quando sono tornata dalla Zona della Morte sull’Himalaya
la mia vita è ripresa a scorrere.
Mi sono accorta che gli uomini mi guardano con ammirazione.
E presto mi deciderò anche ad uscire con un uomo, per
conoscerlo meglio.
Sperando, prima o poi, di trovarne uno che, tenendo in mano
un paio di scarpe e la cintura dei pantaloni, mi faccia ridere come faceva Sam.
Avverrà.
L’ho promesso.
Come sento di volere un figlio.
Ma non smetterò mai più di arrampicare.
Perché significa che anche se un giorno dovessi avere
accanto qualcuno ed esserne innamorata, una parte di Sam continuerà a vivere
dentro di me, indimenticata.
Francys Arsentiev |
Molto intenso. Bravo.
RispondiEliminaGrazie Niki. Detto da te è un GROSSO complimento.
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