Una chicca per voi, che state aspettando che esca "Spaceborne Marines: Faras 2° Parte".
Fresco fresco, appena finito e proveniente dagli SSD del nuovo Mac Pro, vi regalo una favolosa anteprima: un intero capitolo del nuovo romanzo.
Se lo troverete brutale, lungo ed intenso, è solo un assaggio di quello che vi aspetta nei capitoli successivi.
Buona lettura.
Capitolo 7
“LASCIATELA AL SUO DESTINO”
La testa di Itay Ruhoyani, appesantita dall’elmetto, ciondolò, la stanchezza la vinse per un attimo e gli occhi si chiusero.
Il petto colpì il mento, poi la figura si scosse e si stropicciò gli occhi.
L’APC ruotato che fungeva da veicolo comando del suo plotone ebbe un lieve scossone, attutito dalla neve che ricopriva in un manto uniforme la pianura del Mizargar.
Ho bisogno di restare sveglia ed attiva. Siamo in zona di guerra.
Si calò gli occhialoni sul volto e alzò la sciarpa a coprire bocca e naso, si mise in piedi ed aprì la botola dell’osservatore sul soffitto del mezzo.
La neve, a causa del movimento e del vento, la colpì in volto, trafiggendole la pelle con gelidi aghi. Il cielo aveva perso il colore nero e cupo della notte ed era diventato livido e grigio, segno che la pallida alba era imminente.
L’effetto del freddo la svegliò immediatamente.
Davanti a sé la sagoma scura dell’APC che la precedeva nella colonna.
Guardò l’orologio.
Le cinque del mattino. Dovevamo essere già arrivati al ponte di Kixak. Invece siamo ancora lontani.
Improvvisamente l’APC rallentò e Itay si tese immediatamente come una corda di violino.
Poi il mezzo si fermò del tutto.
I droidi hanno di nuovo rilevato delle trappole esplosive!
Calò nel mezzo, chiuse la botola e non aspettò nemmeno gli ordini dal comando di compagnia.
Era già successo altre volte, durante l’avanzata, ed ormai sapeva quello che doveva fare.
Il suo plotone aveva il compito di sorvegliare il lato est della colonna.
«Fuori! Fuori! Fuori! Copertura laterale!» urlò via radio.
Si precipitò all’esterno, nella neve che le arrivava fino alle ginocchia.
Non badò al contatto sgradevole e umidiccio.
Si concentrò solo nell’imbracciare il fucile d’assalto ed a sorvegliare che i suoi soldati, Amazzoni e Fuchi, stessero correndo fuori dai mezzi.
Vide le piccole figure, ammantate nei teli mimetici bianchi chiazzati di piccole macchie verdi, trottare nel biancore della distesa innevata fino a porre una distanza di un centinaio di metri dal convoglio: un serpente di acciaio che si snodava per diversi chilometri lungo l’unica strada che attraversava il Mizargar, prima del fiume.
Itay raggiunse la sua posizione e poi prese quello strumento meraviglioso che i Federali le avevano dato ed insegnato ad usare: un tablet collegato con datalink criptato ad una astronave in orbita geostazionaria.
Lo consultò rapidamente e vide immediatamente che il suo plotone si era schierato correttamente. Poi cambiò visualizzazione e selezionò IPMD.
Quello che vide la mise immediatamente in allarme.
Attivò immediatamente la radio.
«Qui Rama’n Rosso Uno a Rosso Leader. Ostili a trecento metri!»
«Come al solito, Rosso Uno» rispose il suo comandante di compagnia.
«Suggerisco di cambiare tattica. Non mi va di farmi sparare alle spalle ogni volta!»
«Rosso Uno, dirigi tu le danze e riferisci. Ma non voglio altre perdite. Qui Rosso Leader, chiudo.»
Itay aprì la radio sulla frequenza del suo plotone.
«Qui Rosso Uno Leader a Rosso Uno. Ostili a trecento metri in agguato. Stavolta gli diamo la caccia. Rosso Uno-tre e Rosso Uno-quattro da nord. Rosso Uno-due seguimi da sud. Manovra a tenaglia. State pronti.»
Le squadre che componevano il plotone risposero e cominciarono a muoversi nelle direzioni concordate dal piano di Itay.
Arrancarono bassi nella neve, dividendosi in due gruppi e formando una “V” ai vertici della quale c’era il convoglio, ancora fermo.
In cielo, invisibile perchè ad altissima quota, si udì il rombo di un jet solitario.
Ce n’erano sempre in volo, ora.
Ed erano solo della Federazione e dei Ribelli.
La notte prima, l’aviazione d’atmosfera della Federazione aveva annientato al suolo quella del Matriarcato. Attorno a Minia’t non c’era più un aeroporto militare intatto. Né un velivolo in grado di volare.
La Ribellione ed i suoi alleati avevano il dominio assoluto dei cieli.
Quando furono in posizione, Itay riaprì la radio.
«Mox Rosso da uno a quattro, aprite fuoco di copertura sul bosco a trecento metri per novantacinque gradi. Fuoco!»
I cannoni automatici da venticinque degli APC del suo plotone cominciarono a sparare ritmicamente.
Ad intervalli regolari, granate traccianti aprivano nel grigiore dell’alba delle lame di luce vivida. La vegetazione del boschetto sembrò scossa da una tempesta e alcune cime degli alberi collassarono verso terra, perchè il tronco era stato divelto.
Spari di armi leggere cominciarono il loro canto, inframmezzando il BUM! BUM! BUM! dei cannoni del convoglio. Contemporaneamente, nuvolette di fumo cominciarono a levarsi dai bordi della sparuta vegetazione carica di neve.
Itay rimase fredda e osservò con attenzione la reazione nemica.
Sono solo una dozzina… Non di più. Solo armi leggere. E si sono fatti individuare. Dilettanti.
Riaprì la radio.
«Mox Rosso da uno a quattro cessate il fuoco! Rosso Uno, all’assalto!»
Si alzò in piedi, assicurandosi rapidamente che tutti la seguissero e iniziò a fendere la neve, puntando avanti il fucile d’assalto.
Il silenzio improvviso, dopo il frastuono dei cannoni automatici, era appena intaccato dal sommesso frusciare dei vestiti e delle gambe che aprivano il bianco manto.
La giovane karta’n vide dei movimenti sul bordo devastato del boschetto e sparò in quella direzione.
Qualcuno rispose alla provocazione e le due squadre che la seguivano, procedendo da sud, cominciarono fuoco di soppressione, con brevi raffiche ed alternandosi per non consumare munizioni e tenere costante il tiro sulle posizioni nemiche.
Arrivati ad una cinquantina di metri, Itay fece segno di andare a terra.
Fu come tuffarsi nella panna gelida.
La sparatoria aumentò di intensità.
Itay cominciò a strisciare verso il bordo del boschetto e la neve fredda le penetrò nell’uniforme dal collo e dalle maniche, le inumidì l’uniforme con una mano diaccia.
Non ebbe tempo di rabbrividire.
Cercò un riparo, un tronco poco prima del limitare della vegetazione, e ci si accucciò dietro.
Si voltò e cercò di individuare i suoi.
Riuscì a vedere solo i due più vicini, una Amazzone ed un Fuco, mentre si sporgevano per sparare.
L’Amazzone, un sergente, si diresse verso di lei, cercando riparo.
Schizzi di neve apparvero attorno alla figura: impatti di pallottole.
«Non ti fermare! Non ti fermare!» urlò Itay.
Devo fare qualcosa. La uccideranno.
Si sporse dal tronco con la punta dell’elmetto, fino a far apparire gli occhi oltre l’ostacolo, e poi si ritrasse immediatamente.
Pensò alla velocità della luce, analizzando quello che aveva fotografato in un solo istante di osservazione.
C’è una fila di tronchi abbattuti dal nostro fuoco. E delle pietre. Venti metri al massimo. Si sono appostati lì.
Tirò fuori una granata dal vest corazzato e tirò la sicura.
Si sporse di nuovo fulmineamente e lanciò la granata.
Una pallottola scheggiò il tronco a due metri dal suo viso.
Il tempo trascorse interminabile e resistette alla tentazione di mettersi al riparo fino a che la granata non riapparve di nuovo, alla fine del lungo arco, nel suo campo visivo.
Poi si ritrasse nuovamente, con il fiato in gola per l’ansia.
La granata è finita dietro i loro ripari!
Ci fu una esplosione.
La sparatoria nella sua direzione cessò immediatamente.
Il sergente steso nella neve si alzò in piedi e corse con tutto il fiato che aveva verso il tronco che offriva riparo ad Itay e ci si tuffò letteralmente dietro.
«Ancora!» disse Itay estraendo una seconda granata dal vest e mostrandola al sergente con un gesto plateale prima di togliere la sicura.
L’altra amazzone la imitò immediatamente.
Lanciarono tutte e due con rabbia, facendo atterrare le due granate dietro la fila di tronchi abbattuti e pietrame.
Non appena sentirono le esplosioni, le due Farasiane si rizzarono in piedi, fucile d’assalto puntato e dito sul grilletto, e cominciarono a camminare velocemente verso il loro obiettivo.
Una nuvola di fumo si alzava tra i tronchi ancora intatti, mentre altri spari riecheggiavano dalla parte opposta alla loro e lateralmente, più lontano.
Itay si bloccò e fece segno al sergente di avanzare.
«Ti copro io.»
L’Amazzone continuò fino a scavalcare la fila di tronchi. Rimase visibile solo il busto dalla vita in su.
La nobile karta’n la vide brandeggiare il fucile, come se avesse visto qualcosa, e fare fuoco.
Un colpo isolato.
Poi il sergente le fece segno di avanzare.
Senza smettere di puntare l’arma, Itay scavalcò a sua volta i tronchi e la raggiunse.
C’erano cadaveri di quattro miliziani con vecchie uniformi Motani.
Uno, quello a cui il sergente aveva sparato disintegrandogli la sommità del cranio, era un ragazzino che poteva avere l’età di sua sorella Menashine, sedici anni.
«Cercava di raggiungere la pistola, tenente…» mormorò il sergente.
«Hai fatto quello che dovevi fare. Non starci a pensare.»
Si chinò e prese il tablet di servizio.
Localizzò i suoi ed i nemici.
Segnali digitali su uno schermo.
Sentiva gli spari attorno a sé, sempre più radi ed isolati.
Chiese al software di contare i segnali amici.
Ventisei segnali.
Non aveva perso nessuno.
Prese la radio e l’aprì.
«Qui Rosso Uno Leader. Riferire.»
«Qui Rosso Uno-Tre. Non abbiamo più resistenza. Iniziamo la perlustrazione.»
«Qui Rosso Uno-Quattro. Abbiamo finito. Iniziamo la perlustrazione.»
«Qui Rosso Uno-Due. Abbiamo una sorpresa. Abbiamo un prigioniero.»
L’Amazzone annuì.
«Sergente seguimi.»
Con il fucile imbracciato e puntato appena verso il basso, pronto ad entrare in azione, le due Amazzoni si diressero all’interno della vegetazione.
Mano a mano che procedevano, membri della squadra comando di Rama’n Rosso Uno si sbucavano dai tronchi e, come avevano imparato dai soldati della Federazione, si accodavano formando una colonna ordinata, con le armi sfalsate per coprire entrambi i lati.
Itay svoltò verso destra e vide tra i tronchi tre figure.
Una era il sergente Romani, il comandante della terza squadra, con un’altra Amazzone, un caporale. La terza figura era un’Amazzone in uniforme Motani, in ginocchio e con le mani sulla testa.
Quando fu abbastanza vicina, la giovane karta’n si fermò.
«Bel colpo. Ora fatevi da parte.»
Romani e il caporale annuirono.
Sapevano già cosa stava per succedere.
Ne avevano già parlato con il loro comandante durante la notte.
Ed erano d’accordo.
Itay fece ancora un passo in avanti e poi si accucciò portando lo sguardo allo stesso livello della prigioniera.
«Come ti chiami?» domandò.
«Tenente Hazara Wewani. Non dirò altro.»
«Io sono il tenente Itay Ruhoyani. Ed invece ho tante cose da dirti, Hazara Wewani.»
«Ruhoyani… non sarai mica…»
«Sono esattamente lei. La figlia di Tara Ruhoyani, la sorella dell’Enneya Awa Ruhoyani. E sto marciando su Minia’t per avere la mia vendetta.»
Guardò l’uniforme dell’Amazzone Motani: era in ordine. I contrassegni di reparto erano stati tolti. Non era ferita. E il sergente Romani l’aveva perquisita e le aveva tolto qualsiasi cosa atta ad offendere.
«Siete degli Eretici alleati di Eretici!» urlò Hazara Wewani, e sputò sugli stivali di Itay.
Una nuvoletta di vapore le uscì dalla bocca con il gesto.
«Vedremo chi sono gli eretici. Conquisteremo Minia’t. E Tishi dovrà scappare come un topo davanti al gatto1. Perderà la Casata. E la vita. Perché io non avrò pace fino a che mia madre non sarà stata vendicata.»
«Annegherete in un mare di sangue. Minia’t la vedrete solo da lontano, mentre esalerai l’ultimo respiro!» sibilò l’altra.
«Può darsi. Ma una cosa è sicura. Il Matriarcato cesserà di esistere, esploratrice…» disse Itay in tono sarcastico.
«Non…»
La mano di Itay partì rapida ed assestò un ceffone violento in pieno viso alla prigioniera.
La Wewani finì distesa nella neve, con gli occhi sbarrati per la rabbia.
«Non offendere la mia intelligenza. Non è la prima volta che la mia unità subisce attacchi della milizia. E una squadra di miliziani è sempre guidata da un ufficiale delle unità esploranti della Guardia Motani» disse con la massima calma Itay Ruhoyani.
«Tiratela su e legatele le mani» ordinò.
Il sergente Romani e il caporale eseguirono e legarono con una fascetta (anche quella era una cosa che avevano imparato dai Federali) le mani dell’Amazzone dietro la schiena.
Poi la fecero rimettere in ginocchio.
«Quanti altre trappole esplosive avete preparato tra qui e il ponte di Kixak?» domandò Itay in tono incolore.
«Vaffanculo, Ribelle…»
L’altra scoppiò a ridere. Una risata cattiva e isterica.
«Non importa, Hazara Wewani. Tanto le troveremo tutte. E uccideremo tutti i reparti che ci tendono le imboscate, quando ci fermiamo per neutralizzare l’esplosivo.»
Si accucciò di nuovo con lo sguardo all’altezza di quello della prigioniera.
«Ora ti racconto una cosa sulle trappole e le imboscate, Hazara Wewani. Questo convoglio è partito da Korga’t all’una del mattino. E all’una e mezza uno gruppo di fanatici identico al tuo ci ha fatto trovare una tonnellata e mezza di alto esplosivo sulla strada. Solo che i droni della l’hanno individuato e neutralizzato. Mentre i Federali facevano il loro lavoro, rendendo inutile il vostro, io ed il mio plotone eravamo fuori a fare copertura. E c’è stata una imboscata. Uguale a questa. I Federali ci hanno insegnato tante cose. Anche a combattere di notte. Abbiamo individuato chi ci sparava addosso. Li abbiamo presi ai fianchi e spazzati via. Ed abbiamo fatto una prigioniera. Una esploratrice della Guardia come te. Era ferita, perdeva sangue. E il mio vice comandante di plotone, una mia amica di infanzia con cui avevo fatto l’accademia, si è chinata per soccorrerla. Anche questo l’abbiamo imparato dai Federali. Un nemico è tale fino a che ti spara addosso. Sai… hanno tante buone doti i Federali. Cose che di cui non sapevamo nulla, perchè il Matriarcato che difendi ci ha intossicato con la menzogna. Ma anche i Federali non conoscono ancora a fondo il veleno che corrode l’anima delle Amazzoni come te. E la tua collega, anche se ferita gravemente, anche se sapeva benissimo che la stavano medicando per salvarle la vita, ha azionato una granata. Si è fatta saltare in aria uccidendo se stessa e chi le stava salvando la vita. Tutto questo ovviamente ha delle conseguenze…»
Itay tirò fuori una granata dal vest, l’ultima che le era rimasta, e la mise davanti al viso di Hazara Wewani.
Contemporaneamente, il sergente Romani e il caporale afferrarono per le braccia la prigioniera e la tennero ferma.
La giovane karta’n posò a terra la granata, afferrò con entrambe le mani il bavero del giaccone dell’esploratrice e fece forza con violenza, facendo saltare il primo bottone.
Poi prese di nuovo la granata, tirò la sicura e la infilò con tutta la mano nell’indumento.
«… Accade questo, Hazara. Che morirai. Forse il Matriarcato vincerà. Io non credo. Forse mia sorella sarà la nuova matriarca. E questo è molto più probabile. Ma il fanatismo della tua collega vi ucciderà tutte. Con il mio plotone abbiamo deciso che nessun’altra di noi salterà in aria per delle teste di cazzo come te. C’è un limite, Hazara. E voi Motani lo avete superato da un pezzo. Salterai in aria come la mia vice comandante di plotone. Ci conoscevamo da quando eravamo piccole. Non posso riaverla indietro. Ma tu non tornerai da nessuno. Salterai in aria come lei.»
Hazara si contorse. Aveva gli occhi sbarrati per l’orrore.
«Non…non farmi questo! Sei una karta’n. Se vuoi uccidermi sparami! Ma non farmi questo!» balbettò.
Itay per tutta risposta tirò via la mano dal giaccone dell’esploratrice: era vuota.
Si tirò in piedi e parlò ancora.
«Dipende da te quanto vivrai e come morirai. Hai le mani legate dietro la schiena. Con questo freddo la circolazione non è buona. Tra un po’ non le sentirai più e cominceranno ad andare in cancrena. Se ti muovi, la leva della granata si sfilerà. Un due tre quattro cinque e… BUM! le tue budella saranno ai quattro angoli di questo bosco, imbrattando la neve. Oppure puoi restare immobile. Al freddo. Per tutto il tempo che riuscirai ancora a sentire il tuo corpo congelarsi lentamente. Più resterai immobile, meno probabilità hai che la granata esploda. Ma in quel modo sarà una morte lenta. Diventerai una statua di ghiaccio.»
I capelli scarmigliati di Hazara si erano già striati di bianco: il sudore stava ghiacciando.
«Perché?»
«Una questione di giustizia. Mi rivolta lo stomaco fare quello che sto facendo. Ma va fatto. In nome dell’amore che avevo per la mia amica. E per insegnare, nella maniera più crudele e incisiva a quelle come te, che se nemmeno la pietà di un nemico può fermare una mano omicida, allora non avrete più pietà.»
Si voltò e i membri del plotone la seguirono.
Sentì dietro di sé l’urlo di rabbia dell’Amazzone Motani.
«Non puoi! Non puoi! Sei una cagna, Itay Ruhoyani!»
Le urla si fecero sempre più fievoli.
Quando raggiunsero il bordo del bosco, la voce di Hazara Wewani non fu più udibile, inghiottita dal freddo e dalla vegetazione.
Itay aprì la radio.
«Rosso Uno Leader a Rosso Leader. Imboscata neutralizzata. Nessuna perdita.»
«Qui Rosso Leader. Ottimo. Prigionieri?»
«Nessuno. Hanno tutti opposto resistenza fino all’ultimo.»
«Va bene. I Genieri della Federazione hanno finito. Ci muoviamo. Rientrate subito.»
«Ricevuto, Rosso Leader.»
Chiuse la comunicazione e si rivolse via radio ai suoi.
«Rosso Uno Leader a Rosso Uno. Formazione su due colonne. Copertura reciproca. Sugli APC. Il convoglio si sta per muovere.»
Camminarono nella neve, mentre un sole lattiginoso cominciava a filtrare nello strato di nuvole.
E nel momento in cui stava per chiudere il portellone del suo APC, ad Itay parve di sentire l’eco di una esplosione provenire dal bosco.
Ho fatto quello che andava fatto. Nessun atto vile resterà impunito.
Chiuse il portellone e si rivolse al guidatore dell’APC.
«Non appena ti danno il via puoi muovere.»
«Ricevuto, signora» rispose il caporale.
«Che fine ha fatto Harya Serani?» mormorò Udara Hannani.
Guardò l’orologio da polso: aveva mandato il colonnello Yerina Kandrani sulle tracce del generale disperso subito dopo l’alba. E nella notte il cielo sopra le loro teste aveva rimbombato minacciosamente per ore a causa di centinaia e centinaia di jet della Federazione in volo.
Le comunicazioni via radio erano ancora impossibili, per cui aveva inviato una staffetta verso il più vicino aeroporto, cento chilometri più a sud, per cercare conferma di quella che era solo una sua deduzione: l’aviazione del Matriarcato non esisteva più, tranne qualche aereo lasciato a difesa degli ennei Hannani, sul continente che sorgeva più ad est e separato da un oceano tempestoso.
In quel momento nella tenda della Sala Operativa entrò Yerina Kandrani.
«Udara, torno adesso dal settore 4. Ho parlato con un’Amazzone, il capitano Tawani.»
«Allora? Qual’è la situazione?» esclamò impaziente Udara.
«Pessima. I droni della Federazione sono stati annientati. Ma in pratica non abbiamo più forze per difendere gli argini dell’Ifargar. L’abbiamo pagata a caro prezzo. La Serani aveva promesso il cambio con rincalzi freschi per questa mattina. Ovviamente mi hanno domandato che fine avessero fatto.»
«Non ci sono forze. E non intendo usare le mie divisioni. Motana’t?»
L’espressione della Kandrani fu eloquente e scosse la testa lentamente.
«È in mano alla Federazione. Non ho potuto nemmeno avvicinarmi né al ponte né alla cittadina. Il lato sud del ponte è pieno di esoscheletri dei Marines che pattugliano. E in un boschetto credo di aver visto quello che rimane di un blindato della scorta del generale Serani. Stava bruciando…»
«Spero solo che gli altri ponti siano stati fatti saltare. Ma che se ne fanno i Federali? Non hanno mezzi antigravità?»
«Non ho idea.»
«Quanto è grande la testa di ponte a sud di Motana’t?
«Almeno cinque chilometri. Sono stata pochi minuti, il tempo di vedere il ponte intatto, i Federali e il blindato in fiamme.»
«E nessun indizio se Harya Serani sia viva o morta…»
La Kandrani scosse nuovamente la testa.
«Devo supporre che i Federali l’abbiano uccisa o presa prigioniera. Sono io in comando, allora» concluse Udara.
Si alzò in piedi, osservò le mappe e puntò il dito su Motana’t.
«Non so perchè hanno voluto quel ponte. Ma se loro lo hanno preso intatto noi glielo ridurremo a pezzi.»
«E come facciamo a coordinare l’attacco? Le radio ancora non funzionano.»
«Staffette. Togliamo tutte le truppe a difesa dell’argine fino al ponte di Kixak e le spediamo contro Motana’t.»
«Ci vorranno ore!»
«Allora dovremo iniziare subito. Organizza le staffette e mandiamo tutti i settori dall’uno al sei all’assalto. Se non distruggono il ponte digli di non tornare indietro.»
«E come farai ad impedirglielo?»
«Farò schierare la mia artiglieria nelle retrovie. Se provano a ritirarsi dovranno scegliere se farsi annientare dai Federali o da me.»
La Kandrani rimase a bocca aperta.
«Questo non piacerà a Tishi…»
«Sbagli. È proprio quello che vuole, in fondo. Sarà la propaganda a dire, in ogni caso, che la milizia si è sacrificata eroicamente sotto i colpi della malvagia Federazione e che quella cagna di Awa Ruhoyani è la loro serva. Prendere Minia’t sarà tutta un’altra faccenda, per loro.»
Si udirono delle voci all’ingresso della tenda e Yerina Kandrani andò a vedere, mentre Udara cercava un punto, a ovest di Kixak, dove far radunare quello che rimaneva della milizia.
«Udara, è tornata la staffetta che avevi mandato all’aeroporto» annunciò l’Amazzone.
Una giovane ufficiale, un sottotenente con i contrassegni Hannani, si fece avanti e salutò militarmente.
«Sottotenente Harani, unità della Guardia Hannani.»
«Riferisci, tenente Harani» disse Udara in tono piatto.
L’atteggiamento della giovane Farasiana cambiò di colpo e ad Udara sembrò che mostrasse di colpo segni di stanchezza.
«Mia signora… l’aeroporto dove mi hai mandato…»
«Ebbene?» incalzò Udara stringendo gli occhi, infastidita per l’esitazione.
«Non esiste più. È un cimitero all’aria aperta. Le piste sono state sventrate da bombe a penetrazione. Gli hangar incendiati. E il terreno è cosparso di bombe cluster a doppio uso. Nessuno può avvicinarsi senza rischiare di saltare in aria.»
«Sopravvissuti?»
«Sono restata in osservazione per una mezz’ora. Non ho visto segni di vita.»
«… Per la Dea Madre… ci stanno sterminando…» mormorò la Kandrani.
«Falla finita, Yerina. Possiamo ancora giocarci un pezzo di partita!» ringhiò Udara.
Poi si rivolse al sottotenente Harani.
«Venga qui ed osservi la carta…»
La giovane Amazzone si posizionò accanto alla Hannani e vicino al tavolo, tesa come una corda di violino.
Udara indicò un punto sulla carta a circa venti chilometri da Motana’t, in corrispondenza di un villaggio che era stato sfollato settimane prima, Mizardeh, e tracciò una linea leggermente inclinata che andava da nord a sud.
«Dobbiamo riprendere Motana’t e distruggere il ponte. Voglio che contatti i comandanti dei settori da sei a uno e gli dici di attestarsi lungo questa direttrice tra Xarak e l’argine sud dell’Ifargar. Una volta pronti, devono partire all’assalto.»
«Sì, mia signora. Parto subito.»
«Non prima che ti abbia dato un’ultima istruzione: nessuno ha il diritto di ritirarsi se quel ponte non viene distrutto. Chi lo farà sarà considerato un traditore del Matriarcato e trattato come tale. Hai capito?»
Il color mattone della pelle della giovane ufficiale impallidì.
«Ma… mia signora non accetteranno mai un ordine del genere a queste condizioni!»
«Ah no?»
Udara prese una delle mappe e per alcuni minuti vergò in farasiano gli ordini, inclusa l’intimazione che aveva esternato al sottotenente Harani.
Poi la firmò e vi appose il sigillo Hannani in calce.
«Se qualcuno ti tocca, sottotenente Harani, lo faccio giustiziare. Assicurati dell’esecuzione e poi torna qui.»
«Sì, mia signora» rispose imbarazzata la Farasiana. Poi prese la mappa con il sigillo, la piegò, a mise nella borsa portaordini ed uscì di corsa dalla tenda.
«Non ci resta che aspettare…» mormorò Yerina Kandrani.
«Faremo qualcosa di più. Controlleremo che vadano all’attacco. C’è una collina, ad una ventina di chilometri da Motana’t. Non è molto alta, ma la pianura del Mizargar li è piatta come una tavola. Se il meteo e la fortuna ci assistono potremo vedere tutto da una posizione relativamente sicura.»
«E i Marines?»
«Non hanno ancora esteso la testa di ponte, anche se non so perchè. Quindi per ora siamo fuori dal loro radar.»
Dax era rimasto sveglio per tutta la notte, e solo verso le otto del mattino si era deciso a lasciare la Sala Operativa, nel quartier generale di Korga’t, per dormire qualche ora.
Aveva lasciato al suo posto von Holstein, come pure la controparte Farasiana avevano delegato ai propri vice.
Lo sperato ricongiungimento tra le due colonne ed i due ponti non era avvenuto, come pianificato, all’alba, a causa dell’incredibile numero di IED e di agguati lungo la strada. Avevano provocato pochissime perdite tra le fila della Federazione e dei Dissidenti, ma per neutralizzare l’esplosivo (in 4 mesi di fronte stabile c’era stato tutto il tempo di prepararne quantità enormi) si perdeva ogni volta molto tempo.
A causa di tutto l’operazione principale, il lancio su Minia’t era stata rimandata di dodici ore, con il buio. E c’era anche Red Vulture. Quell’operazione in particolare non poteva essere fatta per nessun motivo di giorno.
Una volta nella sua cuccetta, non troppo lontano dalla Sala Operativa, si era addormentato di botto, ma i sogni erano stati confusi. E la parte finale era stata terrorizzante, un loop (se ne era reso conto anche nel dormiveglia) da cui non riusciva ad uscire.
Tutto era iniziato con un ricordo: l’attacco all’impianto di terraformazione su Erya. Le dodici ore più brutte della sua vita, quando i Fantasmi erano all’inizio della loro storia. In maniera contorta e confusa, come un film proiettato con le sequenze a caso, aveva visto se stesso su Par-Dak, disperato e lontano da Daria.
Finalmente era tornato su Erya, ma quella in fase di resurrezione, nell’appartamento di Daria a Cupola One. C’erano veli, e il vento leggero, dovuto alla differenza termica all’interno della cupola, e un letto con lenzuola di un candore abbacinante. E Daria completamente nuda, sopra di lui. Come era accaduto sulla Orel la prima volta (un altro fantasma… la nave era andata distrutta durante la guerra Urdas assieme a tutto l’equipaggio). La visione gli aveva acceso il desiderio e il dolore, acuto, per la lontananza.
Poi tutto era mutato e si era ritrovato sotto un cielo a lui sconosciuto. Le costellazioni gli erano ignote. Gli era già capitato dopo l’incursione su Erya per prendere il Blaster Urdas. Ed era tornato dopo che per mesi lo avevano creduto morto. Ma stavolta la sensazione di gelo era diversa. Ed aveva visto una figura doppia che si avvicinava. Era una ragazza bionda, nuda, dagli occhi verdi senza sclera che teneva per mano un uomo anche lui completamente nudo.
Si rese conto che all’uomo mancava la gamba destra sostituita da una protesi come la sua.
Quando furono abbastanza vicini, la ragazza bionda fu riconoscibile: era la versione adulta di sua figlia Jane, più o meno dell’età di venti anni.
Protese la mano verso di lui.
«Devo toccarti, papà. O morirai.»
Ogni volta fece il tentativo di raggiungere la figlia, ed ogni la figura bionda risultò fuori portata. Il suo sé dell’inconscio provò terrore, perchè qualcuno stava cercando di seppellirlo. Vide la figura di Daria sull’orlo della fossa che gli avrebbe fatto da tomba.
Lei lo guardò, inespressiva.
«Chi è quell’uomo?» domandò.
Provò ad urlare Sono io! Sono Dexter!
Ma la bocca gli si riempì di terra.
E qualcosa, una radice od un animale, cominciò ad aggrapparglisi alla spalla, per tenerlo giù.
La sensazione alla spalla divenne forte e Dax si svegliò ansimando.
Istintivamente portò la mano alla spalla e strinse.
«Anche se non hai un arto bionico hai una stretta di notevole, Dexter» disse Reinhard von Holstein.
Dax si rese conto istantaneamente che il Tedesco, usando proprio il suo braccio artificiale, lo aveva scosso per svegliarlo e che la sua mano stringeva l’avambraccio artificiale in maniera spasmodica.
«Scusami… che succede?» chiese l’Americano alzandosi in piedi e afferrando la giacca dell’uniforme per infilarsela.
A von Holstein non sfuggì l’atteggiamento ombroso di Dax.
Non l’ho mai visto così. È sotto pressione. Ma non credo che la causa sia su Faras…
«C’è un grosso movimento di truppe verso il ponte di Motana’t.»
«Un contrattacco sicuramente.»
Von Holstein ebbe uno dei suoi rari sospiri e il sorriso gli fece contorcere le cicatrici sul viso.
«Forse. O forse no. Faccio prima a mostrartelo.»
Dax finì di indossare l’uniforme e diede un’ultimo tocco tirando il lembo inferiore della giacca, per far sparire le pieghe.
«Andiamo in Sala Operativa.»
Durante il breve tragitto i due incontrarono Fernanda Delgado.
Il tenente dei Marines aveva una tazza fumante in mano e la porse a Dax.
«Té di Par-Dak, signore. Ha dormito troppo poco.»
«Grazie, Fernanda, ci voleva proprio» disse l’altro fermandosi e prendendo la tazza.
Ne bevve un sorso e i tratti del volto si distesero. La sensazione orrenda lasciata dall’incubo cominciò a dissolversi come nebbia al sole.
«Ho una guerra da condurre. Se occorre mi trovi in Sala Operativa.»
La Peruviana annuì e sorrise, scoprendo una fila di denti resi ancora più candidi dalla pelle ambrata come velluto.
Quando Dax entrò nella Sala Operativa, vide che c’erano anche Vyra Qutani e l’Enneya, chine sullo schermo del generale Monash.
Von Holstein, come suo solito, non si perse in convenevoli ed indicò sullo schermo del comandante dei Marines dei gruppi di segnali color blu: il nemico.
«C’è un convoglio enorme, ma che procede apparentemente in ordine sparso…» disse facendo percorrere al suo dito una direttrice parallela al fiume Ifargar.
«… E poi c’è un gruppo, un battaglione circa, che si è fermato qui, presso un villaggio chiamato Mizardeh.»
«Sembra un punto di raduno…» mormorò Dax.
Notò l’espressione interrogativa dell’Australiano.
«Mack? Non sei d’accordo?»
«Non so cosa pensare. Potrebbe essere, ma c’è altro…» ed indicò un punto, dieci chilometri più indietro.
«… Una linea di artiglieria. Sembra più un consolidamento per non farsi prendere sui fianchi e impedire uno sfondamento.»
«Che sono schierati?» chiese Dax.
«Quelli in movimento verso Mizardeh sono milizia e alcune unità regolari Motani. Quelli dietro, con l’artiglieria, sono Hannani. Abbiamo rilevato i contrassegni sui mezzi con i droni.»
Ci fu un lungo momento di silenzio, quasi interminabile.
Dax osservò, concentrato al massimo e la fronte aggrottata, la mappa 3D.
Improvvisamente, si rese conto che diverse paia d’occhi lo guardavano ansiosi in attesa di una risposta.
«Non è un fronte per impedire l’aggiramento. Lo schieramento dell’artiglieria è troppo indietro. Si stanno radunando per attaccare Motana’t.»
«Ed allora perchè hanno schierato l’artiglieria?» domandò Monash sbalordito.
«Udara è al comando, probabilmente. L’artiglieria serve come garanzia che le milizie di Minia’t continueranno l’attacco contro i nostri anche se dovessero venire annientati.»
«Ma è mostruoso!» sbottò ancora l’Australiano.
Dax guardò Awa e la nobile Farasiana annuì.
«Se vero, è perfettamente in linea con la mentalità di Udara.»
«Rimedi?»
«Provochiamoli» rispose asciutto Dax.
Monash capì al volo e gli occhi gli brillarono di gioia selvaggia.
«Uso metà della compagnia del capitano Qanix per l’assalto. E poi lasciamo che il topo si ficchi nella trappola da solo.»
«L’intento è quello di impedirgli di radunarsi. Coordinati con Bader: usiamo anche l’appoggio aereo. E poi mi è venuta un’altra idea…» disse Dax passandosi la mano sul mento.
Sentì la pelle ispida, segno che doveva radersi urgentemente.
Si rivolse al generale Qutani.
«Le divisioni sulla Blue Road sono in grado di procedere senza i miei, vero?»
«Credo di si, generale. L’addestramento per l’uso dei droni lo hanno fatto. E sappiamo fare gli IED anche noi. Quindi sappiamo come neutralizzarli una volta individuati. Cosa vuole fare generale Dax?»
«Voglio usare la 103° e la 99° divisione di Fanteria Federale e lanciarle sugli obbiettivi. Allargare le due teste di ponte e indurre Udara Hannani a ritirarsi verso Minia’t, aprendoci la strada. Manterremo l’iniziativa. Nel frattempo le divisioni della Dissidenza, sulla Blue Road e sulla Red Road, procederanno per conto loro e si ricongiungeranno ai ponti.»
Vyra Qutani annuì.
«Brillante. Ma riusciranno due sole divisioni a fronteggiare forse quasi dieci volte superiori?»
«C’è il divario tecnologico. E se ci muoviamo ora li prendiamo di sorpresa. Potremmo trovare la strada fino a Minia’t sgombra se il gioco riesce.»
«Allora proviamoci. Impartisco gli ordini ai miei.»
«Mack, Jim, provvedete immediatamente.»
Pershing ebbe un ghigno.
«I piani iniziali sono andati, vedo…»
Dax annuì.
«La prima mezz’ora l’abbiamo passata da un pezzo… ora è tempo di reagire ed adattarsi.»
La parte più difficile deve ancora venire.
Werner Beck era tranquillamente seduto sul tetto di una casa alla periferia sud Motana’t, come tutti gli altri, si era tolto la tuta HEAPS, rimanendo nella normale uniforme invernale.
Con il capitano Qanix si era suddiviso i compiti: a lui ed al 1° RECO toccava la sorveglianza perimetrale della città di Motana’t, con l’appoggio di una squadra di Eso. Il resto della compagnia Alfa dei Marines si era spinto a sud, oltre il ponte, ed aveva stabilito una testa di ponte di cinque chilometri.
All’alba c’era stato un po’ di trambusto: un paio di Eso si erano lanciati in corsa verso un bosco ed avevano scoperto e neutralizzato un piccolo convoglio di APC del Matriarcato.
Era seguita dell’animazione, perchè subito dopo lo scontro era arrivato in fretta e furia un Dragonfly dei Marines che era atterrato per pochi minuti all’interno della testa di ponte e poi era ridecollato a tutta birra, diretto verso le retrovie. Beck aveva immediatamente capito che era accaduto qualcosa di importante. La conferma erano state le risposte evasive di Qanix alle sue domande.
Tutto era rimasto tranquillo, anche troppo, per tutta la mattina, ed a migliorare le cos a mezzogiorno la neve aveva smesso di cadere.
Poi qualcosa era cambiato verso l’una, quando la radio del sergente Rilke si era aperta sul canale di comunicazione dei Marines.
«Signore, il capitano Qanix ci avverte che sta per attaccare il nemico, a circa dieci chilometri da qui. E di prepararci ad una reazione. Ci chiede di presidiare il lato sud del ponte e di trincerarci.»
«Perchè?»
«Questo non l’ha detto, signore.»
Beck aggrottò la fronte.
Non va affatto bene. Non siamo alle dipendenze del corpo dei Marines.
«Rilke, chiama il comando di divisione e poi passamelo.»
«Mummert?»
«Conosci qualcun altro che comanda la 103°?»
«No signore. Chiamo subito.»
Mentre il sergente Rilke era indaffarato ad ottenere la comunicazione, saltando interi livelli gerarchici, Beck vide gli Eso a sud del ponte spostarsi rapidamente e mettersi in formazione d’assalto, radunati sei a sei a formare una specie di linea. Dei quarantotto Eso della compagnia Alfa, solo sei, una squadra, venne lasciata a presidio della testa di ponte. Il resto si mosse al trotto, scomparendo in pochi minuti alla vista.
«Capitano, ho il generale Mummert in linea. Glielo passo.»
La voce calma, con una venatura seccata, dell’alto ufficiale risuonò nelle cuffie di Beck.
«Cosa succede capitano?»
«Volevo sapere, signore, se siamo passati alle dipendenze del Corpo dei Marines.»
Ci fu un attimo di silenzio.
«Qual’è il problema?»
«Qui sta succedendo qualcosa di grosso, signore. Prima un Dragonfly arriva e riparte a tutta velocità, dopo un conflitto a fuoco. Poi gli Eso di Blue Pegasus partono all’attacco del nemico, ed a noi viene chiesto di trincerarci a sud del ponte. Il tutto senza una parola di spiegazione. Potrei capire se noi fossimo Marines. Ma non lo siamo. Attendo ordini dalla mia divisione, signore. Inoltre non sappiamo più niente dei rinforzi. Delta Leader (il colonnello Schneider) aveva promesso di essere qui all’alba.»
Se Beck avesse potuto avere il dono della visione a distanza, avrebbe visto Mummert contrarre la mascella ed inarcare il sopracciglio sinistro, gli unici indizi per il mondo esterno che si stava infuriando.
«Bravo Blue Leader, bisogna collaborare. Le do io l’ordine di trincerarsi a sud del ponte. E tenetelo ad ogni costo. Il nemico si sta ammassando a dieci chilometri da dove siete voi, per un contrattacco. Non posso darle ulteriori dettagli via radio. Quanto a Delta Leader, ha dovuto fare da balia ai Ribelli. Ma si sta sganciando. Il Matriarcato avrà una pessima sorpresa. Capitano, pensa di farcela a tenere il ponte?»
Prima di rispondere, Beck non potè fare a meno di notare una cosa.
Mummert ha accuratamente evitato di accennare al Dragonfly ed al conflitto a fuoco nel bosco. O lo tengono all’oscuro, oppure lì è accaduto veramente qualcosa di grosso.
«Può contarci, signore. Gli faremo vedere i sorci verdi.»
«Ottimo. E una cosa…»
«Si, signore?»
«Noi siamo la Fanteria. Ha fatto bene a chiamarmi. Ma la prossima volta segua la via gerarchica. Chiudo.»
«Sì, signore. Grazie signore.»
Fece un gesto con il taglio della mano alla gola e Rilke chiuse la comunicazione.
«Chiama Müller, Ziegler e Sommer. Digli di muovere il culo in fretta. Passiamo il ponte e scaviamo delle trincee a sud del fiume. Tra un po’ avremo visite. I Marines sono andati a stuzzicare un vespaio.»
Udara era stesa sulla neve, su un tappetino bianco, ed aveva rivoltato il giaccone invernale double-face, esponendo all’esterno la mimetizzazione invernale, rendendosi invisibile ad occhio umano.
Aveva portato con sé solo Yerina Kandrani ed un paio di soldati come scorta, viaggiando su due mezzi ruotati in modo da non dare nell’occhio. Si era presa un rischio, ma era convinta che muoversi con gli APC e una scorta numerosa, come aveva fatto Harya Serani, avrebbe attirato lo sguardo dei Federali in qualche modo. Ed a quanto pare i fatti le avevano dato ragione.
Dopo un lungo giro i mezzi erano stati lasciati ai piedi di una anonima collina, un rilievo dai pendii tondi e poco scoscesi, che si elevava per una novantina di metri sulla piana del Mizargar, dove questa digradava dolcemente nella pianura piatta come un biliardo.
Con gli occhi incollati al binocolo aveva visto schierarsi un battaglione della milizia, guidato da una compagnia di regolari Motani nel punto previsto per la partenza del contrattacco.
Voltandosi verso est, in lontananza, nell’aria tersa di un freddo mezzogiorno di gennaio (secondo il computo del calendario Federale…) aveva potuto intravvedere altri battaglioni della milizia in marcia.
Aveva stimato che la presa del ponte fosse avvenuta con un colpo di mano, dovuto a poche forze nemiche e che se avesse radunato una massa di manovra abbastanza consistente avrebbe raggiunto lo scopo.
Poi li vide arrivare.
E tutto cambiò nel giro di pochi minuti.
Una nuvola di neve polverizzata da potenti passi annunciò l’arrivo della tempesta perfetta.
Figure antropomorfe enormi, che imbracciavano armi dalla tecnologia avanzata, si dirigevano in formazione, come una marea d’acciaio, verso la milizia in attesa.
Lo scontro iniziò selvaggio, mentre il battaglione, predisposto per avanzare, cercava disperatamente di sganciare le armi pesanti dai supporti e metterle in funzione.
Gli Eso del capitano Qanix attraversarono le fila della milizia come un coltello incandescente può attraversare un panetto di burro: iniziarono a fare fuoco con i cannoni a canne rotanti da venti millimetri, usando granate esplosive, ad un chilometro di distanza al massimo della velocità che gli arti metallici potessero permettere, circa centoquaranta chilometri orari.
Poi rallentarono ad ottanta chilometri orari e continuarono a fare fuoco piombando in mezzo alla formazione nemica, adottando la copertura reciproca secondo gli schemi ormai ben collaudati del Corpo dei Marines.
Udara vide con rabbia crescente che i Federali stavano letteralmente annientando il suo reparto, senza possibilità di replica.
Quando finalmente un cannone anticarro fu in grado di sparare, dopo poco più di cinque minuti di massacro senza interruzioni, i Marines si ritirarono alla stessa velocità con cui erano venuti, lasciando la milizia con il cinquanta percento in meno di forze e di equipaggiamento.
Quello che accadde dopo fu conseguenza degli ordini impartiti dall’Amazzone Hannani: la minaccia di venir presi a cannonate dalla loro stessa artiglieria se fossero indietreggiati.
Il battaglione dimezzato si lanciò all’inseguimento degli Eso senza la minima organizzazione e, sopratutto, senza aspettare che fossero arrivate le altre unità che dovevano partecipare al contrattacco.
Beck, dalla sua postazione interrata a sud del ponte di Motana’t, vide arrivare gli Eso di Qanix in ritirata a tutta velocità. Li contò: i Marines non avevano perso un solo uomo. C’erano delle corazze segnate dall’impatto di proiettili ed esplosioni, ma fondamentalmente erano graffi superficiali.
Il rischieramento fu fulmineo, stabilendo un perimetro dell’ampiezza di cinque chilometri. La quantità di Eso presente assicurava una densità di fuoco spaventosa, e il Tedesco inizialmente pensò che si sarebbe semplicemente goduto lo spettacolo.
Quando la radio si aprì, capì che le cose non erano poi così tranquille.
«Blue Pegasus Bravo Leader, qui Blue Pegasus Leader, abbiamo preso posizione, ma in caso il nemico riesca a infiltrarsi, teneteli lontano dal ponte!» disse la voce del capitano Qanix in tono concitato.
«Ci siamo trincerati, Blue Pegasus Leader. Che problemi avete?»
Ci fu un secondo di ritardo nella risposta pieno di imbarazzo.
«Cominciamo ad essere a corto di munizioni. Ho chiesto il rifornimento via droni, ma non avverrà prima di un’ora.»
«Ricevuto, Blue Pegasus Leader. Non passeranno.»
Udara Hannani era furiosa ed impotente al tempo stesso. Si era resa conto di aver scatenato la tempesta perfetta e nei minuti successivi alla breve ma letale incursione dei Marines le cose peggiorarono ancora.
Dopo aver assistito alla partenza dello scombinato contrattacco della milizia, all’inseguimento degli Eso dei Marines, diresse la sua attenzione nella direzione di provenienza delle unità che avevano lasciato la difesa dell’argine per convergere sul ponte di Motana’t.
Quando la testa della colonna divenne visibile attraverso il binocolo, il rumore di jet in volo riempì l’aria.
Uno stormo di Prowler della Federazione comparve a bassa quota ed i velivoli puntarono le truppe del Matriarcato. Lo spettacolo, attraverso le lenti del binocolo fu agghiacciante ed irreale: il biancore della piana del Mizargar si accese in silenzio di lampi arancioni misti a terra e neve sollevata in aria. Ogni volta che la nuvola si sollevava, inghiottiva uomini e mezzi, figure grandi quanto una capocchia di spillo. Vide i disperati tentativi di alcuni di sfuggire al massacro: mezzi che sterzavano bruscamente e rimanevano impantanati nel manto nevoso, piccole figure con mimetiche variegate che arrancavano e scivolavano nel biancore ancora immacolato, cercando di allontanarsi da una strada che si era trasformata improvvisamente in un vulcano.
Alcuni secondi dopo l’eco smorzato delle esplosioni la raggiunse.
«Devi rimandarli indietro, Udara…» mormorò Yerina Kandrani.
«E come… non ho più nemmeno una radio. Ed è troppo tardi per mandare una staffetta. Ho sottovalutato quei bastardi della Federazione. Non farò più questo errore.»
Il colonnello Kandrani tornò a guardare con il cuore in gola quello che succedeva qualche chilometro più in là.
La sua attenzione fu attratta da una figura che percorreva il sentiero, molto più a sud, che avevano seguito anche loro per portarsi sull’altura.
Una staffetta… se l’aviazione dei Federali la individua è morta. E se non la fermiamo, ci farà scoprire. Quest’area ora è sotto lo sguardo maligno degli Eretici.
«Udara… andiamo via da qui immediatamente…» mormorò Yerina battendo sulla spalla dell’altra Amazzone.
La Hannani si distolse e guardò interrogativamente il suo capo di Stato Maggiore.
Il colonnello Kandrani indicò con il braccio verso sud.
Non appena Udara Hannani individuò il veicolo militare con una Amazzone in uniforme a bordo capì al volo.
Cominciò a scendere dalla collina, seguita dalla Kandrani e dai due Fuchi di scorta.
Quando raggiunsero i veicoli, saltarono a bordo e si diressero a tutta velocità incontro alla staffetta.
Ogni volta che il rumore dei jet si faceva più intenso, Udara dovette trattenere l’istinto di abbassare la testa, in cerca di una inesistente protezione.
Siamo pochi, non siamo una minaccia, e siamo ai bordi del teatro dello scontro. Per la Dea Madre, gli Eretici hanno di meglio da fare che prendersela con me!
Arrivati ad una cinquantina di metri dal veicolo della staffetta, la scorta deviò verso destra, per avere il campo di tiro libero.
I due fuoristrada si fermarono uno di fronte all’altro, e quando l’Amazzone in uniforme invernale, intirizzita dal freddo, si tolse gli occhialoni e la sciarpa, Udara la riconobbe: il sottotenente Harani.
«Stavi cercando me, Amazzone?»
La giovane ufficiale salutò militarmente ed annuì.
Era in preda ad una febbrile agitazione e parlò con gli occhi sbarrati per la paura.
«Il comandante del settore sette, mia signora, mi ha inviata qui a riferirle. Ci ho messo un po’ per trovarla, e…»
«Cosa ti ha detto di riferire il generale Xani?» tagliò corto la Hannani.
«Il ponte di Kixak. É intatto ed è in mano nemica. E non è tutto. Sta per essere raggiunto da un convoglio dei Federali.»
Udara Hannani annuì lentamente e gli splendidi occhi azzurri senza sclera, dal taglio allungato, si animarono di una luce fredda.
«È un disastro! Cosa facciamo?» gemette Yerina Kandrani.
«Quello che va fatto. Torniamo al quartier generale e facciamo ritirare i nostri reparti» disse la Hannani come se parlasse da un altro mondo.
«Difendiamo Minia’t?»
Il sorriso cattivo di Udara fece gelare il sangue nelle vene del colonnello Kandrani più di una tormenta invernale.
«No. Seguirò il piano di Tishi. L’aveva previsto.»
«E la milizia? Harya Serani non c’è, se te ne vai tu chi prenderà il comando?»
Udara fece un gesto con la mano nell’aria, come se stesse scacciando un insetto fastidioso.
«La milizia sarà più utile per la confusione che genererà che in combattimento. Lasciatela al suo destino.»
Senza aspettare risposta, ordinò al sottotenente Harani di seguirla e rimontò sul veicolo.
Il piccolo convoglio si allontanò lungo la strada innevata verso sud, incurante della tragedia che si stava svolgendo sull’argine dell’Ifargar.
Beck non sparò un colpo.
Non fu necessario.
Restò allibito nel vedere il carnaio che i Marines stavano producendo.
Prima arrivarono i maschi, i Fuchi, in un unica ondata, seguiti e sospinti dai loro ufficiali donna.
Poi la milizia, più esitante, con le armi dei regolari Motani puntate alla schiena.
E per ultimi i soldati Motani, armati di tutto punto, con le Amazzoni in testa che urlavano Morte agli Eretici! in Farasiano.
Tutte si infransero contro le possenti figure antropomorfe.
Ci fu mezz’ora di inferno, in cui i cannoni ad induzione degli Eso spararono in continuazione.
E seminarono la morte come se fosse venuto il giorno del Giudizio.
Poi il brontolio spaventoso dei cannoni cessò.
E come era iniziato, l’assalto si spense nel rantolo di centinaia di moribondi.
Improvvisamente Beck notò che tra i corpi straziati degli assalitori vagava una figura incappucciata.
Con la chiarezza fornita dal sistema di visione della HEAPS, potè riconoscere le fattezze di una giovane donna nell’uniforme raffazzonata della milizia. Era disarmata, ma aveva ancora addosso l’equipaggiamento e da uno spallaccio pendeva una granata, ancora con la sicura.
Vide l’Eso di Qanix muoversi e puntarla.
Qualcosa in Beck si ruppe.
Ed una parola a lettere cubitali gli marchiò la mente a fuoco: NO.
«Blue Leader da Bravo Blue Leader. Alla Farasiana ci penso io.»
«Può essere una trappola, Bravo Blue Leader…»
NO. Abbiamo vinto. Non è necessario. Basta, perdio…
«O forse no. Mi assumo io la responsabilità. Lei è protetto dal suo Eso. Il rischio è mio.»
«Come vuole, Bravo Blue Leader…» rispose Qanix.
Saltò senza apparente sforzo dal fondo della trincea sul terreno sopraelevato.
Poi iniziò a correre ad ottanta chilometri l’ora verso la figura solitaria.
Nemmeno quando rallentò bruscamente, sollevando spruzzi di neve, l’Amazzone parve vederlo.
Il sistema di sensori captò la voce.
«Karak Tawani… Mkadex karak?2» ripeteva la ragazza come un disco rotto.
Il Tedesco rimase a guardarla girare a vuoto tra membra umanoidi e cadaveri sparsi per il terreno innevato per un paio di minuti, senza riuscire a pronunciare una parola.
Poi si tolse l’elmetto corazzato e lo agganciò alla HEAPS.
Aprì la grossa piastra frontale ed uscì all’aperto come se fosse venuto al mondo in quel momento.
Prese il fucile dalla grossa mano guantata della tuta, se lo mise in spalla e compì gli ultimi passi che lo separavano dalla figura.
Dovette fare uno sforzo enorme per parlare di nuovo e trovare le parole.
Riuscì a dire solo Ehi… nel tono più gentile che potè.
La ragazza portò la mano alla granata e Beck imbracciò il fucile.
«Non farlo… non farlo, per l’amor di Dio… o della Dea Madre o quello che è… per favore non farlo…» mormorò scuotendo la testa.
In quel momento l’hummm di centinaia di motori antigravità riempì l’aria: mezzi corazzati, trasporti, mezzi logistici, artiglieria stavano risalendo l’argine dopo aver sorvolato, a pelo d’acqua, l’Ifargar.
Due paia d’occhi, Beck e la sconosciuta Farasiana, guardarono lo spettacolo terribile e meraviglioso della Federazione che stendeva la sua mano possente.
Il capitano del 1° RECO riconobbe sulle corazze il simbolo della 103° Divisione di Fanteria Federale: un leone su un picco pietroso, I Leoni di Blaustein.
Quando Beck, dopo un breve istante di distrazione, tornò a guardare la Farasiana, questa aveva tolto la granata dallo spallaccio e gliela stava porgendo con il braccio steso.
La granata aveva ancora la sicura.
Ed il volto della ragazza era pieno di lacrime.
Allungò la mano e tolse l’arma dalla piccola mano.
«Tu uccide me ora?» chiese la Farasiana in un inglese standard stentato.
«Qual’è il tuo nome» rispose invece Beck.
«Ena…»
Il Tedesco notò che la ragazza indossava degli eleganti guanti da ufficiale.
Le giberne dell’equipaggiamento erano vuote.
Non aveva nemmeno un pugnale alla cintura.
Li hanno mandati al massacro senza una preparazione. Senza una possibilità. Chi ha fatto questo dovrebbe pagarla di fronte al dio della Guerra.
«Mi chiamo Werner. E non voglio ucciderti.»
«Io… non posso indietro. Hannani… mi uccidono se indietro» singhiozzò Ena.
«Nessuno ti ucciderà. Se mi segui, nessuno ti ucciderà.»
Ena cadde in ginocchio, piangendo.
Beck si guardò attorno: centinaia di cadaveri li circondavano.
Tutti portavano la stessa uniforme raccogliticcia della Farasiana.
Capì che Ena era l’unica sopravvissuta della sua unità.
E questo gli fece sentire un profondo senso di fratellanza con quella che, fino a cinque minuti prima, era il suo nemico.
Perchè a lui, su un altro pianeta, anni prima, era accaduta la stessa cosa.
Risalì all’interno della tuta HEAPS, la svegliò dallo stand by, si rinfilò l’elmetto corazzato e poi, delicatamente, prese nelle possenti braccia bioniche la Farasiana e cominciò ad incamminarsi verso le sue linee.
Nessuno ti farà più del male, Ena. Nei noi, ne i Farasiani. Per te la guerra è finita.
Qualcuno diede una pacca sull’elmetto di Itay Ruhoyani e lei aprì gli occhi di botto.
Sentì la cornea pizzicarle per il sonno e quella sensazione di leggera nausea che ormai era diventata un’abitudine la invase: il suo corpo era pieno di tossine.
Ad averla svegliata in quel modo brusco era il sergente maggiore della sua squadra, una robusta Amazzone di nome Vynai Zariani.
Trent’anni, la Zariani veniva dal proletariato di Rya’t. Era rimasta nei ranghi di sottufficiale per la sua umile provenienza e perchè detestava l’Accademia ufficiali. Ma aveva forza ed esperienza. Itay sapeva, in caso, di poterle affidare l’intero plotone in caso di necessità.
«Tenente, non starà mica dormendo?» domandò.
«Temo di si, Vynai. Per quanto tempo sono rimasta priva di coscienza?»
«Più o meno un paio di minuti…»
La Zariani sorrise.
«È capitato anche a me le prime volte. Poi quando perdi qualcuno perchè non ce l’hai fatta a rimanere per più di ventiquattro ore sveglia, impari i trucchi per non mollare mai, fino a quando puoi permettertelo.»
«Sono riuscita a sognare.»
«E cosa si può sognare in due minuti, Altezza?»
«Ero con mia madre Tara, a Minia’t, nel Palazzo di Rappresentanza. Ed era primavera.»
Il pensiero le aveva messo una tristezza indicibile, Itay preferì cambiare discorso.
«Perché mi hai svegliata? Sta succedendo qualcosa?»
«Direi proprio di sì, tenente. Siamo in vista del ponte di Kixak. Non vorrà perdersi lo spettacolo: entriamo nella pianura del Mizargar Interno.»
Itay sorrise, ma sentì che mancava di calore. La nostalgia per sua madre stava avendo il sopravvento.
«Per nulla al mondo, Vynai. Solo una cosa…»
«Mi dica tenente…»
«Non chiamarmi mai più Altezza fino a che la guerra non sarà finita. Non sono qui per il mio rango. Sono qui per combattere come tutti e tutte noi. Solo il grado. E fuori servizio per nome. Itay… ripetilo.»
L’espressione di Vynai Zariani si illuminò.
Era orgoglio per quell’onore inaspettato.
Ed era quasi amore.
Itay seppe, in quel momento, di aver conquistato l’anima del suo sergente maggiore e che questa avrebbe fatto qualsiasi cosa per ripagarla della fiducia e dell’amicizia. E ne ebbe paura.
Non voleva che Vynai morisse per lei in battaglia, anche se forse, prima o poi, sarebbe accaduto. O forse nemmeno lei avrebbe visto la fine di quella guerra.
«Itay… ricevuto, signora. Ora però dia uno sguardo di fuori» e strizzò l’occhio.
La giovane Ruhoyani scacciò quei pensieri, aprì la botola sul soffitto dell’APC e sporse il busto.
Il cielo di mezzogiorno era chiaro, senza una nuvola in cielo, e l’aria era fredda e tagliente.
Vide il primo Esoscheletro dei Marines e poi immediatamente un altro.
Sapeva ormai che quei Federali combattevano sempre a coppie, in copertura reciproca.
L’intera area era stata messa in sicurezza.
Ovunque voltasse lo sguardo, ormai, la nobile Farasiana poteva vedere sagome lontane di esoscheletri della Federazione.
Guardò in avanti e vide il ponte.
La testa del convoglio aveva già imboccato la testata e non accennava a rallentare.
Quando il suo APC fu vicino alla rampa d’ingresso, vide i soldati norvegesi della 99° Divisione di Fanteria nelle loro tute HEAPS, che facevano ampi segni di proseguire.
Conosceva quei Terrestri. Erano diventati degli eroi per tutta la popolazione Ruhoyani a nord di Rya’t. Si erano prodigati per salvare il più possibile della sua gente, sottoposta a pulizia etnica dalla Casata Hannani durante l’occupazione.
Si chinò un attimo ed ordinò al pilota dell’APC di fermarsi al prossimo gruppo di Fanti Federali.
Non dovette aspettare molto.
Ce n’era un drappello di quattro o cinque proprio sulla rampa del ponte.
L’APC si fermò e Itay si sporse per parlare.
«Salve! Tenente Ruhoyani! Sapete perché non ci fermiamo?»
Una Terrestre rispose in Inglese Standard, ma con uno strano accento, scuotendo la testa.
«Salve! Tenente Astrid Karlsen! Ci sono notizie che il fronte dei Lealisti sia collassato. Ci sono solo scontri sparsi qua e là, niente più resistenza organizzata. Dovete avanzare e stabilire una testa di ponte più profonda possibile prima del tramonto! È tutto quello che so! Ed ora proseguite! State bloccando tutta la colonna!»
Itay salutò militarmente e urlò al suo guidatore di riprendere la marcia velocemente.
La notizia le aveva fatto battere il cuore per la gioia.
Erano notizie eccellenti.
Il Mizargar, la maggior pianura fertile degli Ennei Motani, si divideva in Esterno ed Interno: quello Esterno (che si divideva a sua volta in Esterno Settentrionale ed Esterno Meridionale) era una fascia di una sessantina di chilometri che correva al di fuori dei due fiumi Ifargar e Targar. La porzione compresa tra i due imponenti corsi d’acqua, separati da circa ottocento chilometri, era il Mizargar Interno. Era la zona dove si svolgeva il settanta percento delle attività produttive e ci viveva il cinquanta per cento della popolazione Motani.
A differenza de Territori Franchi e del Mizargar Esterno, era ricco di paesini e piccole città, di vie di comunicazione ed era percorso da numerosi canali per l’irrigazione.
Al centro si ergeva Minia’t la Splendente.
Itay sapeva perfettamente dove fosse, per aver fatto proprio quella strada dozzine di volte, provenendo da Rya’t, quando seguiva la sorella maggiore e la madre per gli affari di Stato e le riunioni tra Casate.
Il ponte fu passato in un attimo e dopo pochi minuti gli Esoscheletri sparirono alla vista.
Cominciarono ad arrivare gli ordini.
Tutte le divisioni avevano degli obiettivi, mentre la 99° Divisione di Fanteria Federale, che fino ad ora li aveva preceduti, li lasciava, per ripiegare verso ovest.
Guardò una cartina e intuì quello che stava succedendo: i Federali stavano chiudendo una grossa sacca ed all’interno c’erano i reparti della milizia che difendeva il Mizargar.
Poi cercò l’obiettivo assegnato al battaglione di cui faceva parte: un paese all’incrocio di due strade principali che attraversavano l’intera pianura, a circa cento ottanta chilometri da Kixak.
Era una bella distanza e si chiese se per il tramonto, non molto distante ormai, ce l’avrebbe fatta.
Ma se era vero quello che l’ufficiale terrestre le aveva detto, forse avrebbe visto le cupole e le guglie d’oro di Minia’t molto presto. Al massimo tra un paio di giorni.
Ed allora sarebbe iniziata la vera resa dei conti.
La notte era scesa, ed il battaglione della divisione della Guardia Rama’n, dove prestava servizio Itay, aveva raggiunto il suo obiettivo senza incontrare praticamente resistenza. Una cavalcata a bordo degli APC quasi senza interruzione.
Il suo plotone fu schierato alla periferia sud di un piccolo paese, a controllare una serie di ponticelli che rendevano possibile il passaggio su una serie di canali.
Itay dispose, come le avevano insegnato i Federali, metà dei suoi effettivi a riposo ed ristorarsi, mentre l’altra metà restava pronta all’azione all’occorrenza.
Non appena avessero finito, si sarebbero dati il cambio con l’altra metà.
Per velocizzare, aveva preteso, ed ottenuto, che i pasti fossero distribuiti con un servizio di mensa mobile. Il primo pasto caldo in ventiquattro ore.
L’aveva assaggiato e consumato assieme alla sua squadra, e lo spezzatino caldo ed aromatizzato, anche se un po’ acquoso, le era sembrato una cena degna di una Enneya.
Il morale era risalito alle stelle e nel giro di un’ora la seconda metà, e il secondo giro di pasti, era stato servito.
Fu verso mezzanotte, quando tutti avevano finito e Itay aveva completato il giro per le postazioni che aveva predisposto, controllando che tutto fosse in ordine, che si udì una vibrazione talmente forte nell’aria da far tremare la cassa toracica e le gambe.
«Che diavolo…» esclamò Vynai Zariani rizzandosi in piedi, imbracciando il fucile e guardando verso il cielo.
Itay non disse niente.
Notò solo che nel cielo terso e scuro, le stelle venivano a tratti oscurate da centinaia e centinaia di sagome gigantesche in volo.
«La Dea Madre, negli scritti di Hany’na la Grande, predice che gli Eretici riceveranno il castigo dal cielo.»
«Ed allora?»
«Ed allora credo che stavolta tocchi a Tishi Motani ricevere la punizione divina. Per aver usato gli Insegnamenti di Hany’na per i suoi luridi scopi.»
Abbassò lo sguardo e sebbene non potesse vederla, seppe che la Zariani la stava guardando interdetta.
«Angeli e demoni scenderanno dal cielo. E chi ha corrotto gli Insegnamenti conoscerà sofferenza e morte. La Federazione sta dispiegando tutta la sua potenza.»
Finalmente Vynai Zariani capì.
«I Profetica di Hany’na l’avevano predetto. Ma non avrei mai creduto di vedere la Dea Madre ricorrere ai Federali, facendogli impersonare i suoi spiriti della Giustizia. Tishi è un’Eretica.»
Tacque un attimo. E poi proseguì in tono preoccupato.
«Nulla sarà più come prima. Viviamo tempi di grande cambiamento, tenente.»
Itay sorrise, anche se l’espressione si perse nel buio della notte.
Saggezza popolare. Vynai ne è intrisa, come tutta la gente semplice. A volte la invidio.
«Se sia un bene od un male, dipenderà da noi» rispose la giovane karta’n.
Rimasero entrambe per quasi venti minuti con il naso in aria, cercando di distinguere qualcosa, mentre una tempesta di acciaio e di fuoco si avvicinava a quattrocento chilometri orari a Minia’t.
1 Topo davanti al gatto = la traduzione dal farasiano è approssimativa. Non esistono topi e gatti su Faras. È solo stata resa la similitudine.
2 Farasiano “Capitano Tawani… dov’è capitano?”
Sempre avvincente...
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